Serata emozionale per il pubblico della LXX edizione del Festival di Ravello che ha rincontrato il trombettista in quintetto con gli italian friends. Post-concerto propositivo, idee per un progetto più ampio con il meglio del jazz italiano e il musicista di New Orleans
Di Olga Chieffi
Un’ora e mezza di musica di forte tensione emotiva sul Belvedere di Villa Rufolo, per uno degli eventi centrali della LXX edizione del Ravello Festival, il ritorno di Wynton Marsalis, dopo undici anni dal memorabile concerto con la Big Band del Lincoln Center, chiuso da un after hour in sestetto, quasi un preludio alla performance di quest’estate. Il suo ordine virtuoso degli elementi fondamentali della musica lo rende un moderno che sa guardare al tradizionale, essendo capace di farci ascoltare sia gli stili, che da sempre conosciamo e amiamo riconoscere e sentire, sia ciò che ci riserverà il futuro. Le funzioni musicali sono centrifugate in un’orbita creata individualmente che include l’accumulazione di momenti di intensa emozione. Allo scopo di rifecondare il jazz contemporaneo, Marsalis usa tutti gli elementi fondamentali del jazz, dallo swing, al blues, dalla ballad ai ritmi afro-ispanici. Marsalis è del tutto a suo agio in tutti gli stili, in cui usa un suono lavorato, direi, cesellato altamente comunicativo, attraverso il quale il trombettista è capace di cogliere la sostanza del rapporto tra lirismo e tecnicismo, “sforando” il virtuosismo con note tanto “pesantemente” espressive. Wynton Marsalis resta comunque sostenitore del primato della melodia, riconosce che la ripetizione, eseguita al punto giusto, può creare una forza irresistibile che esalta la sezione ritmica. Storie diverse, par dire Marsalis, ma non è così, tra quel concerto con Big Band e questo ritorno in formazione con i guru del jazz italiano, Stefano Di Battista al sax alto e soprano, Dado Moroni al piano, Francesco Ciniglio alla batteria e al contrabbasso una colonna di quella band, Carlos Henriquez. Wynton Marsalis ha lasciato dialogare sulla ribalta ravellese, racchiusa una scaletta eterogenea, la storia del jazz e le sue contaminazioni, abbracciando i classici del blues quale Saint Louis Blues che abbiamo ritrovato nelle donne di Stefano Di Battista nello schizzo di Madame Lily Devalier, l’intramontabile Cherokee, per passare all’omaggio alla musica italiana con Caruso di Lucio Dalla la cui melodia è stata sottolineata dal bel suono di Wynton, solo, però, nella seconda parte, di una pagina aperta dai concetti dell’hard-bop con un fraseggio elettrizzante, assolutamente facile e gradevole da ascoltare, ma di ardua esecuzione. Ancora Italia con “Metti una sera a cena” di Ennio Morricone, perché il jazz sin dall’inizio ha “parlato” italiano e Stefano Di Battista ha mostrato tutta la sua esperienza attraverso un suono che è un incrocio delle strade maestre del sassofono, dal raffinato interplay, capace di allargare a proprio piacimento la tavolozza sonora, proiettando avanti il linguaggio, senza perdere di vista aspetti essenziali del campo artistico di appartenenza, nella fattispecie l’improvvisazione, l’espressività ritmica e l’adesione ai concetti ritmici del jazz, la cura minuziosa del sound e il non rinunciare mai, nemmeno in presenza di strutture ampie e vincolanti, alla pratica improvvisativa. Assoluta rivelazione il drummer Francesco Ciniglio, capace di farci intuire il tema sui tamburi, il suo modo di “amministrare” i silenzi, la libertà ritmica di scardinare ogni rigida divisione metrica, arricchendola di frammentazioni, giustapposizioni e contrasti, mentre conoscevamo già il contrabbasso di Henriquez, il suo equilibrio tra il pensiero compositivo e il suo sviluppo, regista attento della musica, giunto ormai, a vette linguistiche strumentali ed espressive, siderali e Dado Moroni, amico da oltre quarant’anni di Wymton, sulla cui tastiera la musica agisce lungo coordinate composte e introspettive, alla ricerca dell’eleganza più che del laboratorio permanente, per ottenere qualcosa di nuovo, quell’intermusicalità, caratteristica del jazz che abbraccia l’appropriazione e la riscrittura di una pagina, sfidandosi su valori estetici acquisiti, in virtù del suo continuo processo di risignificazione della realtà. Bis manouche con un’altra donna di Stefano, Coco Chanel e le atmosfere parigine di Django Reinhardt, con il pubblico rimasto a lungo in tribuna, ad attendere Marsalis, che certamente riascolteremo, star di un progetto italiano, “allargato”, nato in quella magia creativa che è il palcoscenico del Ravello Festival.