di Olga Chieffi
Il pugile che sul ring volteggiava come una farfalla e pungeva come una vespa, sbarca in teatro. Dopo il debutto nella scorsa edizione del Napoli Teatro Festival, Francesco Di Leva torna a vestire i panni del celebre pugile statunitense Cassius Marcellus Clay Jr. nello spettacolo Muhammad Ali, ideato con Pino Carbone, che ne cura la regia, in scena questa sera, alle ore 21.00 alla Sala Pasolini di Salerno. Presentato da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro, l’allestimento, con la drammaturgia di Linda Dalisi, nasce dalla passione per il pugile statunitense da parte dell’attore partenopeo, cui, spesso, si è ispirato per l’interpretazione dei suoi personaggi teatrali. Se c’ era un’ emozione pura da dare è questa: Muhammed Alì non è un simbolo che piace a tutti, ma ha unito tutti, non solo famoso nello sport e in un continente, ma un contestatore che ha diviso il paese, che è stato molto odiato, che nel ‘ 64 quando conquistò il titolo mondiale dei pesi massimi si chiamava ancora Cassius Clay, ma prima di salire sul ring pregò con Malcom X per chiedere la benedizione di Allah; che ripu
diò perfino la moglie, l’indossatrice Sonji Roi, perché restia ad abbracciare le norme della nuova fede, che sul ring si vendicò di Ernie Terrell che insisteva a chiamarlo “signor Clay”, accompagnando ogni pugno con la domanda: “Come mi chiamo?”, uno cui l’ America ha mandato i suoi sicari a casa, a scaricare i fucili sul portone, uno che è stato amico di tutti quelli che non piacciono all’ America: Saddam Hussein, Fidel Castro, uno che ha buttato nel fiume la medaglia d’ oro vinta alle Olimpiadi di Roma nel 1960 dopo che gli avevano rifiutato l’ entrata in un bar per soli bianchi. “Perché se non mi servi nemmeno a bere una birra, vuol dire che conti davvero poco”. E’ noto che i successi sportivi sono stati solo una parte di una figura in grado di attirare l’attenzione del Mondo su temi d’importanza fondamentale quali la libertà, la dignità e i diritti universali. Complesso è capire quali meccanismi culturali hanno permesso che tale importante figura sia stata incarnata da uno sportivo e non da un leader politico o religioso, perché, quanto realizzato da Muhammad Ali non ha uguali, dal punto di vista sociale, se
non forse nell’opera di Ernesto Guevara. I successi sportivi hanno solo sfiorato la sua grandezza: i tre titoli mondiali conquistati rappresentano una lezione per ogni campione e un record ancora difficile da battere: “Non c’è nulla di male a cadere, l’importante è rialzarsi“. E lui l’ha fatto sempre, con una forza che gli derivava da una fede mai bigotta e un rispetto per tutte le culture. Per questo alcuni dei suoi incontri più belli e significativi si sono svolti fuori dagli States, in Jamaica, Zaire, Filippine. Una forma di rispetto sportivo per un pubblico che lo amava sin dalla prima grande vittoria, a Roma nel 1960. C’è qualcosa di profondamente rivoluzionario nell’affermare: “Io non ho nulla contro i Vietcong, nessuno di loro mi ha chiamato negro…“. Non solo il rifiuto per le “guerre degli altri”, ma soprattutto una dimensione internazionalista nella quale le nazioni spariscono, e con esse gli “interessi nazionali” che sono poi gli interessi dei soliti noti, per riconoscersi soltanto in chi vive la tua stessa condizione, aldilà del colore della pelle. Il percorso di salvezza che ha disegnato per il suo popolo è stato l’elemento centrale del suo agire. Il “suo popolo” è quello nero americano, alle prese con una difficile emancipazione negli anni in cui si discuteva ancora se fosse giusto che bianchi e neri potessero prendere l’autobus insieme e studiare nelle scuole comuni. Muhammad Ali è arrivato dove non arrivò Malcom X e dove non poteva arrivare Martin Luther King. Arrivò, veloce come un diretto, nello stomaco della nazione bianca e del mondo intero, dove “nazione bianca” sta per l’intera classe media occidentale.