Spritz in musica all’ombra del Vesuvio - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Spritz in musica all’ombra del Vesuvio

Spritz in musica all’ombra del Vesuvio

Olga Chieffi

EChi non conosce o non ha mai sorseggiato uno Spritz? Protagonista del rito dell’aperitivo, è senza dubbio il long drink alcolico più famoso d’Italia, ed è quella sprizzata di frizzante che il pianista Marcello Ferrante e la cantante Arianna Fortunato hanno inteso evocare nel loro ultimo progetto dedicato alla “Canzone Napoletana” – quella con le iniziali maiuscole – e’ stata, per decenni, sinonimo anche di “Canzone Italiana”. “Voglio cantare e si nun canto moro,/ E si nun canto me sento murire. /Me sento fa’ nu nureco a lu core/Nisciuno amante me lo po’ sciuglìre”. In questi versi di Libero Bovio, è racchiusa tutta l’esplosione passionale del sentire musicale partenopeo. E’, la canzone napoletana, la storia di un popolo che attraverso altissimi versi e musica immortale, si è posto in cammino, cantando il suo sentire, i suoi contrasti, la sua bellezza, la sua libertà, il suo amore, aprendosi ad ogni contaminazione, pur mantenendo intatta la propria inconfondibile identità, misteriosa e sfuggente. Marcello Ferrante e Arianna Fortunato hanno confezionato un EP con sei tracce Malafemmena, Reginella, Dicitencello Vuje, Passione, Era de Maggio e Che m’e ‘mparato a fa’, che hanno avuto la loro anteprima sul palcoscenico del Teatro delle Arti nel corso della serata dedicata ai 60 anni di carriera di Claudio Tortora. Marcello ha curato tutto nei minimi dettagli, dalla produzione agli arrangiamenti, frutto di una grande esperienza e preparazione musicale che guarda a quel luminoso passato che aveva il massimo rispetto della melodia. Alla produzione hanno partecipato Gianni Ferrante, che ha curato la parte del missaggio e ha registrato le parti di batteria; Matteo Masullo al violino e Sandro Deidda al sax tenore, soprano e clarinetto. Arianna dall’emissione delicata e omogenea lungo tutta la sua vellutata gamma sopranile, nel suo “dire” musicale iridescente e modulato ha dialogato perfettamente con il confronto plurilinguista dello strumentale, in cui la canzone è stata liberata da ogni manierismo esecutivo, per ridonarla all’ascoltatore, filologicamente pura, ma con lo sguardo rivolto ad un futuro aperto ad ogni influenza diretta o indiretta, che la naturale evoluzione del linguaggio musicale ha esercitato su questa struttura compositiva. L’EP racchiude anche quelle che sono le cosiddette “contaminazioni” tra le sonorità indigene del territorio e gli apporti che, in una terra di mare e di porti, di commerci e di scambi non potevano non influenzarne l’evoluzione, ovvero un germe intrinseco di cui gli stessi autori non avrebbero neppure supposto l’esistenza. Caratteristiche derivanti, comuni alla cultura musicale americana, che si materializzano, a tratti, in alcune forme ritmiche, evolutesi pero’ in maniera diversa fino a giungere, ad esempio, alla scuola del blues napoletano. Aspetti dunque, apparentemente cosi’ lontani da una forma musicale nata per essere emblema dell’espressione melodica, adatte ad essere facilmente accolta dal semplice gusto popolare. Le sei tracce ci caleranno in qualcosa di fluido ed evocativo, veri e propri paesaggi acustici, perché dai suoni trapelano storie, con la loro densità affettiva e la loro costitutiva eccedenza, rispetto al tempo e ai luoghi. Niente è più vibrante di un corpo d’acqua, sulle cui rotte avviene la diaspora di ritmi, melodie, vocalizzi, tonalità. Cosi’, piuttosto che reinterpretare i brani in uno dei mille modi, con il possibile esito di banalizzarli, la formazione ha puntato a far emergere un particolare Napoli Sound, appunto, tracciando i lineamenti dei temi per poi lasciare il dovuto spazio alla rielaborazione ed allo sviluppo della melodia, coprendo spazi e territori inesplorati, ma in punta di piedi. Crediamo di sposare le intenzioni di Marcello Ferrante ed Arianna Fortunato, affermando che si possa definire canzone napoletana quel componimento musicale, i cui versi siano nella nostra lingua e la cui melodia sia riconoscibile come napoletana, appartenente, cioè, ad una precisa etnia, così come avviene per il fado, il flamenco e per altri generi musicali di tradizione popolare. Tuttavia, risulta non facile fissare la specifica identità della canzone napoletana, perché essa è come un mare che ha ricevuto acqua da tanti fiumi. E’ figlia della poesia, come quasi tutti i canti di antica tradizione, e ha espresso, come le è universalmente riconosciuto i sentimenti, la storia e i costumi di un popolo. Nello stesso tempo, però, si è adattata alle esigenze di mercato, diventando, di volta in volta, canzone di taverna, da salotto, da ballo, teatrale, sia comica che drammatica, e chi sa quante altre cose ancora. Non sempre e non solo bisogno di canto e di poesia, quindi, ma anche buono o cattivo artigianato. Il fatto singolare è che la canzone, “porosa”, come la città – per dirla con la definizione che Benjamin coniò per Napoli -, ha assorbito tutto, riuscendo a rimanere in fondo se stessa. Malgrado sia stata contaminata, nel tempo, da sonorità appartenenti ad altre culture e ad altri generi musicali, la melodia napoletana è riuscita a conservare un suo codice di riconoscimento, un proprio DNA, quel “profumo” che la rende inconfondibile, come una lingua perduta, della quale abbiamo forse dimenticato il senso e serbato soltanto l’armonia, una reminiscenza, la lingua di prima e forse anche la lingua di dopo. Sarà per noi, con il duo e le varie special guest, rappresentanti di quella musica delle azioni, fedele specchio di un crogiuolo di culture e di storie, anche precarie e instabili, un calarsi rigenerante nella melodia napoletana interpreti d’atmosfere e di emozioni, dispensatori di un prezioso talismano foriero di piccole ebbrezze a Sud del mondo sotto lo sguardo enigmatico della luna nuova, nelle notti d’estate.