Questa sera, alle ore 19,30, in Duomo concerto della formazione composta dai migliori elementi della Campania, diretti dal M° Claudio Ciampa. In programma Italia di Giacomo Vitale, l’Incompiuta di Franz Schubert, Farandole da l’Arlesienne di Georges Bizet, la danza delle spade dal balletto Gajane di Aram Khachaturian
Di Olga Chieffi
Maggio, mese delle arti, della bellezza, tempo per mostrare i frutti di un anno di studio. Al Duomo di Salerno, questa sera alle ore 19,30, taglio del nastro del cartellone allestito dal Polo dei Licei Musicali e Coreutici della Campania, istituito per la diffusione della cultura coreutica, musicale e teatrale della Campania, e che, nel 2019, ha unito i 35 istituiti della regione (29 solo musicali, 2 solo coreutici e 4 coreutici e musicali) nella costituzione di 7 orchestre, 1 coro e 2 compagnie di danza, e che vede il liceo Musicale diretto da Elisabetta Barone, capofila proprio per l’orchestra sinfonica. “Cavallo giovane, cavaliere esperto”, recita un adagio dell’equitazione e sul podio stasera salirà il M° Claudio Ciampa (il figliolo Francesco Ivan Ciampa dirigerà a fine maggio la Cenerentola di Gioachino Rossini al massimo cittadino) per guidare la giovane formazione, composta attraverso severe audizioni, in un programma di non semplice esecuzione. Dopo gli Inni d’ Italia ed Europeo, arrangiati da Lidia De Migno, la serata verrà inaugurata da “Italia” una pagina commissionata al M° Giacomo Vitale proprio per questo evento. L’idea compositiva si pone alla ricerca delle radici della musica italiana e racchiude le cellule germinali del nostro Inno nazionale e del brindisi della Traviata, accomunati da un intervallo particolare, quello di VI maggiore ascendente, andando, poi a concludersi con un pedale in Do Maggiore che rappresenta il richiamo forte della terra, ed è caratterizzato dall’accompagnamento della Tammorra, strumento popolare, su cui danzeranno le dita di Raffaella Coppola . Si continuerà, quindi, con la Sinfonia n°8 in Si minore di Franz Schubert, l’Incompiuta, note e frammenti che sono nel sentire di tutti noi. Non ultimare la propria opera per cause diverse da quelle inevitabili e indilazionabili della morte (come è invece il caso dell’Arte della fuga di Bach, del Requiem d Mozart o della Nona Sinfonia di Bruckner), se da un lato alimenta la legittima curiosità dello studioso, dall’altro investe realtà misteriose e imperscrutabili, di fronte alle quali diventa difficile e sarebbe in ogni caso presuntuoso pretendere di dire una parola definitiva. Perchè Schubert lasciò incompiuta la Sinfonia in si minore? Perchè dopo i due primi movimenti, composti nell’ottobre 1822, dopo aver aggiunte due pagine orchestrate dello “Scherzo” e lasciato altro materiale allo stato di abbozzo, il compositore si fermò, accantonò il lavoro e non lo riprese più, fino alla sua morte? Sono, queste, domande alle quali sono state date cento diverse risposte; ma una sola di esse si avvicina, pur senza coglierla, alla verità: la Sinfonia in se stessa era finita dopo i due primi movimenti, rimanendo formalmente incompiuti ma compositivamente, sostanzialmente compiuta così. Ottava fatica in campo sinfonico, anteriore soltanto a quell’immenso e conclusivo vertice rappresentato dalla Sinfonia in do maggiore detta “La Grande” (marzo 1828), la Sinfonia in si minore è un punto di arrivo dove il salto rispetto alla produzione sinfonica precedente di Schubert si fa notevole, quasi abissale: non tanto per lo stile, sempre individualmente riconoscibile (quando Hanslick la ascoltò per la prima volta – molti anni dopo la morte dell’autore – non esitò a sentenziare: “Schubert! È proprio Schubert!”), quanto per la qualità della scrittura, assai ricca e variata, per la flessibilità ed omogeneità del trattamento tematico, per il modo nuovo di concepire la tonalità, non più mero valore funzionale bensì colore armonico inquietante e discontinuo nei suoi nessi associativi; e infine per l’ampliamento della tavolozza orchestrale che Schubert, memore delle conquiste fatte nella musica da camera, maneggia ora con maestria insuperabile, mettendola al servizio di una concezione formale senza confronti ardita. Apparentemente differenziati nella fisionomia, l’ “Allegro moderato” in si minore e il successivo “Andante con moto” in mi maggiore rivelano in profondità strette relazioni, sia sotto l’aspetto ritmico sia dal punto di vista dell’elaborazione tematica: quasi fossero due volti, opposti ma complementari, di un’identica realtà. La consapevolezza compositiva di Schubert ha raggiunto un tale controllo sulla materia che le metamorfosi (ritmiche, melodiche e armoniche) si nutrono alla fonte dell’unità originaria, nello stesso istante in cui questa unità, sfaccettandosi in infinite sfumature, sembra perdere i propri connotati e addentrarsi in territori illimitati, mai prima esplorati. In questo viaggio verso orizzonti sconosciuti, Schubert ha un solo compagno di strada: Beethoven. Schubert, come Beethoven, si fermò là dove nessuno poteva arrivare, un lontano punto illuminato che noi riusciamo appena a intravvedere e che, con la nostra debole vista, continuiamo a chiamare “incompiuto”. Nel contesto delle musiche per il balletto fin troppo celebre, ma indice di una ispirazione ritmica e coloristica non comune è rimasta la Danza delle Spade, penultimo numero della terza Suite orchestrale ricavata da Aram Khačaturjan per le musiche di Gajane, pagina scelta dal M° Ciampa proprio per la sua folgorante pregnanza. Ancora una pagina strappaplausi per il finale con Georges Bizet, col finale della II Suite de’ l’Arlesienne festosamente colorito e coinvolgente nel ritmo martellante del tamburo, la Farandole, caratteristica danza provenzale.