Presentata martedì sera negli spazi della pinacoteca provinciale da Pasquale De Cristofaro e Rino Mele, i due volumi del compianto critico Franco Tozza “Teatro e teatri a Salerno” in libreria per la D’Amato Editore. Supportato da una notevole mole di materiale iconografico e da un attento apparato filologico, il testo esamina le eterogenee esperienze attraverso le quali la prassi teatrale, ma anche musicale, si è ramificata in una città capace di esprimere un fervore culturale che l’ha spesso riscattata dalla sua apparente marginalità.
Di Gemma Criscuoli
Franco Tozza amava ripetere, con Nietzsche, che i fatti sono stupidi. Ciò che davvero conta è cogliere, senza pregiudizi, l’essenza di un evento, le sue ripercussioni, spesso impreviste, sugli altri avvenimenti e tale prospettiva risulta tanto più rilevante quanto più è rivolta a quel catalizzatore di forze che è il palcoscenico. Animato, quindi, da raro rigore, il compianto critico ha profuso tutte le proprie energie in “Teatro e teatri a Salerno” (D’Amato Editore), la poderosa pubblicazione in due volumi presentata a un pubblico numeroso e attento, presso la Pinacoteca provinciale, dal Vicepresidente della Provincia di Salerno Giovanni Guzzo e dal Presidente della Società Salernitana di Storia Patria Alfonso Conte insieme al regista Pasquale De Cristofaro e al poeta e scrittore Rino Mele. Supportato da una notevole mole di materiale iconografico e da un attento apparato filologico, il testo esamina le eterogenee esperienze attraverso le quali la prassi teatrale, ma anche musicale, si è ramificata in una città capace di esprimere un fervore culturale che l’ha spesso riscattata dalla sua apparente marginalità. Guardando a Matteo Fiore e allo studio sui teatri a Napoli a cura di Benedetto Croce, Tozza conduce la propria indagine a partire dal tardo Seicento: dagli esordi del Teatro Sant’Agostino fino al ruolo fondamentale del Teatro Verdi, che ospita il meglio della drammaturgia (dalla Compagnia dei Giovani a Gassman), dal tramonto della nobiltà al progressivo affermarsi di una borghesia che non teme scelte destinate a lasciare un segno, dagli spettacoli cari al grande pubblico fino alle avanguardie, il quadro tratteggiato dall’autore diviene una preziosa chiave interpretativa del legame tra microstoria e macrostoria. Se Guzzo ha ricordato il compito cruciale delle istituzioni nel veicolare il messaggio dello studioso in vista di una crescita dell’intera collettività proprio ora che l’elemento sociale alla base del teatro viene meno, Conte ha letto un messaggio di Aurelio Musi pieno di ammirazione per l’intelligenza vivace di Tozza, le cui ricerche sono state pubblicate nella rassegna storica salernitana e che ha sempre compreso come la provincia rappresentasse una categoria antropologica in grado di arricchire la storia tout court. Conte ha inoltre sottolineato il ragionamento intrigante dell’autore che, in particolare tra Ottocento e Novecento, ha saputo evitare le secche dell’aneddotica. “E’ stato il teatro a unirci, vissuto da entrambi con necessità esistenziale – ha affermato con affetto De Cristofaro, ricordando un suo spettacolo con Ugo Marano e Michele Monetta, in cui la comparsa in scena della Duse dietro un mazzo di rose colpì Tozza per la forza di una presenza che si nega- Nella sua militanza critica rara e profonda, Franco era rigoroso ma non settario: amava comunque Squarzina e Strehler e anche i tradimenti sulla scena, purchè presupponessero talento e arte. Condivideva il rammarico di Roberto Alonge nell’assistere a registi senza alcuna perizia e dai risultati puerili, ma il suo sguardo si basava sul meglio della storiografia teatrale, come Molinari, Cruciani, Ruffini e con questa sua ultima fatica ha offerto spunti per capire meglio la nostra civiltà, riflettendo sulla società civile: si può, in effetti, studiare il teatro attraverso la società e viceversa. Nel conflitto tra cultura materiale e ideologia teatrale, Franco ha scelto da che parte stare: la storiografia teatrale non può precludersi la messinscena. Lo spazio letterario è rassicurante nella sua fissità, ma il teatro è esperienza e lo stesso Pirandello ci ricorda che un’opera d’arte sopravvive solo se riusciamo a liberarla dalla sua forma”. “La fantasmizzazione sostitutiva che questo libro rappresenta – ha detto Rino Mele- rende difficile avvicinarsi a esso ora che Franco si è allontanato o forse siamo noi ad averlo fatto. Il suo modello di scrittura diventa una tessitura strettissima, eliminando il più possibile le pause e prediligendo l’ipotassi. È una scrittura che ha la sua superbia, responsabilità, consapevolezza e nel comunicare tutto ciò che è stato saputo, sofferto, ipotizzato, induce il lettore all’immersione, costringendolo a riflettere sul fallimento sociopolitico degli ultimi duecento anni. Leopardi nello Zibaldone scrive che la vita è una prova di commedia senza spettatori. Vivere è casualità e diventa effimero dinanzi alla concretezza del teatro, dove l’atto del vedere e giudicare dona senso”.