
di Alberto Cuomo
Le vele di Scampia erano un complesso di sette edifici residenziali di cui quattro già abbattuti e solo tre ancora in piedi. Costruito a Napoli tra il 1962 ed il 1975, il quartiere, sin dopo la costruzione, dalla fine degli anni Settanta, vide operare la camorra che ne fece un vero e proprio luogo di distribuzione della droga e di scontri mortali tra i vari clan, tant’è che ha costituito la concreta scenografia di film e serie televisive aventi per tema la malavita napoletana. Il degrado sociale che si era determinato aveva già indotto l’idea, complessa, del loro abbattimento inducendo l’amministrazione comunale alla demolizione, tra il 1997 e il 2003, di tre vele con l’assegnazione di denominazioni di colori a quelle superstiti. Gli interventi rivolti a una bonifica sociale delle Vele sono stati molteplici tanto da indurre gli stessi residenti a creare associazioni in lotta alla camorra e al degrado. Un tentativo di riqualificare la zona è stato attuato dall’Università Federico II di Napoli, che nel 2022 ha inaugurato una sua struttura, con dipartimenti e corsi di studio nelle professioni sanitarie, in luogo di una vela abbattuta. Nel luglio dello scorso anno il crollo del ballatoio di una delle vele, che ha provocato la morte di tre persone, ha reso più stringente la necessità di demolire gli edifici, fortemente deteriorati dal tempo e dal cattivo uso, e già a settembre è stata emanata dal sindaco l’ordinanza dell’abbattimento di due vele iniziato alcuni giorni fa. A memoria del quartiere che possedeva valori architettonici e di utopia sociale resterà in piedi una vela da utilizzare per servizi. Il complesso fu progettato dall’architetto Franz di Salvo e adattato alla legge n. 167 del 1962 per l’edilizia economica e popolare avendo un suo complemento nel progetto, dello stesso Di Salvo, per la città nolana. Nei primi progetti, anteriori al 1960, Di Salvo guardava a Le Corbusier ed al razionalismo tedesco, le Vele invece, pur mantenendo l’idea corbusiana del ballatoio quale strada interna, sembra fare riferimento, non solo nella dimensione quanto anche nella tecnologia, ai macroquartieri inglesi satelliti delle grandi città. Non a caso ogni vela era alta 45 metri, per complessivi 14 piani, e lunga circa 100 metri, tale da offrire i suoi 180 appartamenti a circa1000 residenti, in una forma scalettata che le dà il nome. L’idea, che sosterrà anche il progetto della città Nolana, è ripresa dal piano per Napoli di Piccinato allestito nel dopoguerra per evitare il congestionamento di Napoli e della fascia costiera con lo spostamento di abitanti verso le aree interne dove trasferire anche aziende e posti di lavoro. A tanto il progettista aggiungeva una modalità atta a ricreare il senso comunitario della popolazione mediante la previsione di ballatoi a cielo aperto, quali erano i vicoli, invece che chiusi come nelle Unité d’abitation. La mancata realizzazione dei servizi, del verde, e l’uso del ballatoio come piazza per lo spaccio, in una perversione dello spirito comunitario, hanno quindi condotto alla degenerazione, anche fisica, del quartiere, i cui abitanti saranno ricollocati in edifici nuovi di tipo tradizionale. Gli anni Sessanta vedono in Italia molti progetti di edifici residenziali di grande scala nelle città. Si ricorderà il quartiere Forte Quezzi, progettato sulla collina di Genova da Daneri e Fuselli per il programma Ina-Casa, che contiene in un unico edificio sinuoso, visibile dall’intera città, ben 4500 abitanti. O il Nuovo Corviale, costituito da tre edifici residenziali, di cui uno di circa un chilometro, per 9 piani e trenta metri di altezza, progettato per l’IACP da 23 progettisti coordinati da Mario Fiorentino e contenente a sua volta 4500 abitanti. Mentre l’andamento dell’edificio genovese secondo le curve di livello della collina non ha attirato molte critiche, il Nuovo Corviale, sebbene l’intento di Fiorentino fosse di offrire un segno forte ad indicare il limite massimo della periferia romana, in realtà poi superato, è divenuto a Roma il simbolo del degrado, dell’alienazione dei residenti ridotti a mero numero, sì da condurre Mario Fiorentino al suicidio. A Salerno un quartiere che segue gli stessi principi è il Q2-Q4 progettato dallo Studio STAU, e, particolarmente, dall’architetto Mario Dell’Acqua, con una scalettatura dei piani, in diversa direzione, ma analoga a quella delle Vele. Anche il Q2-Q4 presentava in progetto un ballatoio interno che avrebbe dovuto attraversare l’intero complesso legandosi con ponti ai servizi che non sono stati realizzati. Forse la presenza di edifici costruiti da privati in cooperativa non ha determinato, allo stesso modo di quanto è accaduto a Genova, un forte degrado sebbene in tutti questi casi, pur nelle buone intenzioni dei progettisti, non si possa non parlare di “mostri”, termine che secondo la lingua latina implica non solo il prodigio quanto l’ammonire. Estranei alla storia delle città in cui sono stati insediati, nel pretendere piuttosto che la storia si adegui a loro, quartieri come le Vele, il Corviale, il Q2-Q4 vorrebbero essere portatori della falsa utopia anglosassone di poter edificare un intero edificio-città, brulicante di uomini e mezzi, utile a decongestionare la metropoli, senza avvedersi di essere di fatto al servizio della mera speculazione, come è accaduto a tutti i tre complessi, particolarmente, al Corviale e al Q2-Q4 che sono stati, attraverso gli allacciamenti delle reti pagati con denaro pubblico, il cavallo di Troia che ha determinato l’ingresso della più selvaggia cementificazione dell’area verde portuense a Roma e del “paradiso” di Pastena a Salerno. Mostri che non hanno sono stati di monito ad evitare altre mostruosità come è dato vedere oggi a Salerno dove un ulteriore megamostro, firmato dalle imprese Postiglione e Rainone che, nel medesimo intento di aprire alla speculazione l’area orientale della città, così come già si tentò con un inesistente progetto di parco acquatico, ha anche l’arroganza di definirsi “porta di mare”, con il nome cioè di un antico sito della nostra città, e di “rigenerare la storia”.