Un duce sognato e vagheggiato si trasforma in uomo forte incarnato da Salvini. I manifesti recentemente apparsi per le strade di alcune nostre località, propongono un audace accostamento fra il capo del fascismo e il leader del nuovo Carroccio. E’ questa, per qualcuno, la figura simbolo che oggi potrebbe evocare la persona in grado di restaurare ordine, dignità, e operatività che sarebbero stati perduti negli ultimi anni e che ad avviso dei nostalgici del trapassato regime, non potrebbero essere ripristinati solo dal nostro senso civico e dalla nostra educazione, quanto dalla capacità di un sol uomo, in grado di riunire intorno a sé le migliori intelligenze e speranze. Che poi i crudi e duri (come Bossi e il Trota hanno ampiamente dimostrato), avessero qualche scheletro nella credenza, non fa niente, tanto anche Mussolini aveva nel suo enorme guardaroba la Petacci (e parenti) o gli affari con palazzinari e guerrafondai. Da anni bottiglie di vino intitolate a Mussolini, piccoli busti di bronzo, accendini e gadgets di ogni genere facevano la loro malinconica apparizione nelle vetrine dei negozi sulle aree di servizio o in quelle di qualche tabaccaio del centro di Salerno. Ma pochi si sono accorti dei simboli piccoli e grandi lasciati qua e là e che nemmeno ai passanti distratti ricordano più i fasci del vecchio regime. L’autoreferenzialità architettonica, si sa, è propria di tutti i regimi dispotici e dittatoriali, dal tempo dei Romani al periodo stalinista, con i falsi classicheggianti improntati a scene auliche, mitiche, eroiche, storiche: giovani lavoratori con arnesi di lavoro, animali agresti, madri spossate e tuttavia in marcia; il tutto ambientato in scenari in cui colonne, marmi, scaloni, ingressi, lampadari, ospitano una fiera delle vanità immaginifica, umana, indorata, osannata, provinciale di cui il municipio di Salerno costituisce il più eclatante e per fortuna artistico esempio che ognuno ha sotto gli occhi. Dai tempi del principe Arechi fino agli architetti del periodo fascista, i palazzi, i prospetti, le strade, le opere pubbliche dovevano rispondere all’esigenza della celebrazione, per convincere i cittadini di essere parte di un grande progetto o di un meraviglioso presente. Ovviamente, al crollo di ogni regime, i suoi simboli vengono impietosamente demoliti, scalpellati, sostituiti. E’ anche questo un fenomeno antico, già in uso presso gli Egiziani che erano soliti procedere alla sistematica eliminazione persino dei nomi dei principi e funzionari caduti in disgrazia, con una damnatio memoriae che prevedeva come lo scalpello cancellasse dalla pietra ogni loro superstite ricordo. Anche oggi nella città capoluogo qualcosa è sopravvissuto a indicare il tempo delle edificazioni. Il più eclatante ricordo è davvero innanzi al nostro sguardo e si trova sulla torre del palazzo della Provincia. Sotto l’orologio, vi siete mai accorti che si legge ancora la scritta ANNO VI E F ? Ossia, anno sesto dell’era fascista. Queste memorie temporali ricordano addirittura che si credeva di far parte di un’epoca nuova, e in tutta la Campania ne sono rimaste non poche tracce. L’ultimo segno, credo, di un fascio littorio si trovava su un serbatoio del vecchio deposito ferroviario di via Dalmazia, a ridosso del sottopassaggio. Forse malamente scalpellato o rovinato, se ne vede ancora un labile segno su un lato della costruzione. Sarà lasciato o sottoposto agli ardori legali? Carmelo Currò
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