S. Severino. Se il cemento travolge e cancella le vestigia del passato - Le Cronache Ultimora
Ultimora Mercato San Severino

S. Severino. Se il cemento travolge e cancella le vestigia del passato

S. Severino. Se il cemento travolge e cancella  le vestigia del passato

Silvia Siniscalchi

Un paese che vede le proprie risorse naturali e paesaggistiche a poco a poco ridotte in macerie dovrà prima o poi fare i conti con le conseguenze dell’annichilimento della propria intelligenza collettiva. Guardiamo senza vedere, osserviamo senza capire, parliamo senza sapere, con la complicità di un sistema formativo in crisi, dei tamtam “copia e incolla” dei social e di una dilagante incultura di massa. Può quindi stupire il senso di sgomento che ci assale quando, come lo schiavo del celebre mito di Platone, abbiamo occasione di uscire dalla caverna e spalancare finalmente gli occhi. E, nel farlo, con una semplice passeggiata, potremmo scoprire, per esempio, che a Pandola, piccola frazione del comune di Mercato San Severino, in provincia di Salerno, una colorata palazzina abbia letteralmente fagocitato una chiesa medievale. La chiesa in questione è quella “di S. Fortunato (già Parrocchia) XII secolo”, come informa il cartello a suo tempo affisso proprio dal Comune. Si potrebbe pensare a uno scherzo, invece è tutto vero. I residenti della palazzina, ubicata nella “zona alta” di Pandola, guardano con sospetto chi si avvicina troppo senza essere stato invitato, ma nella “parte bassa” gli abitanti raccontano che la palazzina è stata costruita non molti anni fa, con una concessione lampo ottenuta dalla coeva amministrazione comunale (sulle cui motivazioni pare opportuno sospendere il giudizio, in attesa, forse, di quello divino …). Al di là dello scempio edilizio, l’oltraggio alla memoria collettiva del borgo offre lo spunto per riflettere sul fatto che la presenza di una chiesa del XII secolo, con annessa canonica, sia un indicatore della passata vitalità di Pandola durante il Medioevo, così come dell’intero Solco Irno-Solofrana, animato da attività artigianali, traffici e commerci. Oggi il paese si presenta come un borgo ancorato al passato, con radicate consuetudini impresse negli stili di vita della collettività e negli arredi urbani: l’edicola, il bar, le seggiole lungo i marciapiedi (che diventano il prolungamento organico delle abitazioni), la Chiesa di S. Anna (già cappella di S. Maria della Libera, con annesso ospedale e monte dei pegni, come riporta un inventario del 1563 relativo ai beni posseduti) e alcuni palazzi nobiliari affacciati sulla via delle Puglie, le cui facciate ricordano il tempo in cui la confraternita locale era governata da mastri laicali ed era soggetta alla curia arcivescovile di Salerno. Ai nostri giorni la frazione è invece conosciuta dai più per essere sede di uno dei più longevi presepi viventi del Salernitano, il cui allestimento, da oltre vent’anni, contribuisce a cementare il senso di appartenenza della collettività locale, impegnata per mesi nella sua preparazione e realizzazione. Così come Betlemme non era l’ultima delle città di Giuda (Mt, 2,6), dunque, Pandola non era un anonimo centro durante il Medioevo. Non lo raccontano solo le testimonianze materiali del paesaggio (trasformazioni a parte), ma anche quelle immateriali: secondo alcuni storici locali il toponimo, derivato da un personale longobardo (“Pandone”), avrebbe indicato il nome di un’importante famiglia del tempo. Ma nelle carte aragonesi (seconda metà del XV secolo) e in quella del Principato Citra di Giovanni Antonio Magini (inizi del XVII secolo), la cittadina compare con il nome di “Pano” (diventerà Pandola nella cartografia di primo Ottocento), mentre in alcune fonti dell’Archivio Storico della Biblioteca Statale di Montevergine si legge il nome di Piazza «de Panno». La circostanza richiama un significato ulteriore, come si apprende da altri studi: nel periodo longobardo alcuni ebrei, specializzati nell’attività di concia, manganatura e tintura delle stoffe, svolsero le loro attività della lavorazione delle pelli e dei panni vicino alla Solofrana, proprio nel casale di Pandola, la cui attuale denominazione include quindi l’originario significato di “panno”. L’ipotesi è avvalorata dalla circostanza che ancora oggi esiste nella frazione una via denominata “Giudeca” (nota anche come “Via Fiume”), insieme al ricordo collettivo della presenza di una comunità ebraica. Lo rivela la ricostruzione, con esplicita intitolazione, della casa di una “famiglia ebrea” realizzata nelle varie edizioni del presepe vivente, aprendo uno squarcio sulla storia di un’area che, alla pari di altre, contribuiva significativamente all’economia del territorio locale durante i secoli passati. Una storia che gli abitanti di Pandola, per molti aspetti, non hanno dimenticato e che, a loro modo, custodiscono e tramandano. Intanto, però, palazzinari e professionisti del cemento, dal dopoguerra in poi, hanno proliferato per ogni dove nel nostro Paese e continuano a fare il loro mestiere, stimolando scelte, pianificazioni e investimenti infrastrutturali discutibili. Mentre la politica, nazionale e locale, si dibatte tra la preservazione dell’interesse collettivo e la disponibilità verso finanziamenti compiacenti, anche a fini elettorali, Legambiente denuncia il consumo di suolo in Italia come una delle minacce più gravi per il nostro Paese. Lo conferma il Rapporto ISPRA del 2024, che per la Campania certifica il 5° posto nella classifica delle regioni italiane con il maggior consumo di suolo. Si tratta di un fenomeno irreversibile, di estensione preoccupante, che peggiora la qualità della vita delle collettività, a partire dalla distruzione dell’habitat e dei paesaggi, incoraggiando l’abusivismo, con i pericoli che ne derivano, innescando un processo pernicioso di svalutazione degli spazi e alimentando il senso collettivo del loro disvalore, accompagnato da un sempre più evidente degrado sociale. Circostanza che dovrebbe indurre le istituzioni non solo ad affiggere cartelli, ma a promuovere iniziative che abbiano una ricaduta concreta per preservare, valorizzare e inserire in progetti qualificati di marketing territoriale le memorie storiche dei luoghi. Luoghi sempre più dimenticati, perché nascosti dai tempi e dagli spazi compressi del territorio trasformato in una veloce sequenza di immagini, che scorrono per lo più sullo schermo di uno smartphone. Si tratta di meccanismi perniciosi ma spesso occultati da una sorta di “velo di Maya” che noi uomini del XXI secolo, storditi dalle illusioni propinate dagli elfi tecnologici della libertà vigilata, troppo spesso caliamo sugli occhi, assuefatti come siamo a rivolgere “sguardi estranei” (per parafrasare il titolo di un romanzo di Herta Müller di alcuni anni fa) ai luoghi e ai non luoghi della nostra contemporaneità.

Seguici su twitter

@LCronache

Seguici su Instagram

@le_cronache

Seguici Su Facebook

Segui in tempo reale