Ravello. Jérémie Rhorer e quel Wagner alla francese - Le Cronache Spettacolo e Cultura
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Ravello. Jérémie Rhorer e quel Wagner alla francese

Ravello. Jérémie Rhorer e quel Wagner alla francese
Di Olga Chieffi
Non felicissima la scelta di inaugurare la LXXIII edizione del Ravello Festival con l’orchestra Le Cercle de l’Harmonie, diretta da Jérémie Rhorer, formazione francese consacrata agli strumenti d’epoca e alla lettura filologica, all’aperto. Pubblico delle grandi occasioni per ritrovare il nuovo corso della direzione della fondazione della città della musica, con Lucio Gregoretti quale direttore artistico, fisso sul seggio della presidenza Alessio Vlad e Maurizio Pietrantonio alla direzione generale. Harmonie, sì certamente, ma è un termine che ha da ricostruirsi, in Villa Rufolo, poiché è mancata l’oscillazione “simpatica”, ovvero quella corda che, per definizione, entra in vibrazione senza essere sollecitata, emettendo suono, che “è” Elio Macinante, deus ex machina dell’intero festival, leader autorevole della produzione, capace di risolvere nell’immediato qualsiasi problema, dal suono in palcoscenico, alla molletta sul leggìo, all’idea programmatica. Un vuoto, solo fisico, naturalmente, inatteso, ma attualmente riempito da Rosalba Loiudice, un prestito “estivo” del Teatro Verdi di Salerno, un doppio incarico di grande e, aggiungerei, emozionale, responsabilità, nei confronti di una figura, quale è quella di Elio, che vivrà per sempre i tòpoi, nel doppio significato di luoghi e leitmotiv, di Villa Rufolo e dell’intera Ravello. Dopo la presentazione di concerto e libro da parte del “Loggionista impenitente”, Alberto Mattioli, una carriera da giornalista, critico e music-storyteller, interamente basata sulla frequentazione dei vari teatri, spettacoli, festival e concerti, in duo con Alessio Vlad, entrambi empaticamente in accordo, ci si è spostati sul belvedere per l’evento musicale.
Il concerto è stato inaugurato dal Preludio all’atto primo del Parsifal, che ha immediatamente rinfocolato la querelle sulle esecuzioni filologiche barocche, delle quali è latrice proprio questa orchestra, non immemore del nostro Paolo Isotta e dei suoi i suoi strali, pungenti, ironici o elegiaci, contro ciò che gli appariva, in alcune manifestazioni, quali l’orrido campo di sconce e sterili battaglie sulla moda di questo tipo di esecuzioni. Nell’attacco proprio del Parsifal,  abbiamo riscontrato i traversieri discronici, scrocchi di corni, archi in corde di budello, che hanno ceduto d’intonazione, e una fonìa d’orchestra scelta dal direttore che non ha mai convinto, continuata, quindi, anche se con minori ombre, nell’Ouverture del Tannhauser. Wagner alla francese, quindi, una scuola direttoriale che, dopo Pierre Boulez e Georges Prêtre, non ha quasi più lanciato pari bacchette, oggi racchiuse tutte nel repertorio autoctono, dunque, oltre alla gravosa difficoltà del suonare all’aperto con quel tipo di strumenti, in uno spazio acustico non semplice, è mancato quel rigore, assoluto che occorre per eseguire le partiture del genio tedesco, anche e, soprattutto, l’ultima, che guarda a certe dissolvenze, a certe lungaggini fin de siècle. E’ musica che battuta per battuta deve prendere, il sopravvento e dall’orchestra, per dirla con Riccardo Muti, ha da ergersi una colonna di suono che avvolga il direttore e i musicisti e il pubblico “ne sei travolto e stravolto… è difficile dopo liberartene: ti rimane addosso una specie di malia, di magia” e sul belvedere di Ravello non è proprio passata quell’essenza wagneriana, che caratterizza la sua ultima opera. Seconda parte del concerto, dedicata all’esecuzione della Symphonie Fantastique di Hector Berlioz, in cui finalmente l’orchestra ha trovato il giusto asset. Boulez dice che in Berlioz, l’autobiografismo insegue il pentagramma: “La trama autobiografica si sovrappone allo svolgimento, non lo coordina”. Ma lì sta la bellezza singolare di questa partitura, così intrisa di ebbrezza giovanile, di enfasi, di ironia e intrisa pure del “gioco” serio di far lo sborione che è del trasudante narcisismo di certi giovani geniali. Menzione, stavolta per tutti i legni e le percussioni, in particolare nell’ultimo quadro, ma nell’orchestra “filologica” ci  è mancato il famoso serpentone del Dies irae, sostituito da un secondo oficleide. Si è certamente notato come la attenzione ai dettagli, da parte del direttore, soprattutto nel primo tempo, possa essere risultata eccessivamente accentuata, rischiando di apparire artificiosa e di appesantire l’esecuzione. Nella “Marche au supplice”, la scelta interpretativa è stata volta a sottolinearne la natura “terrificante”, ma resa con un tempo troppo lento e una pesantezza che ha compromesso altri aspetti, come la tensione visionaria e l’impatto complessivo. Uno degli elementi indispensabili per eseguire in maniera impeccabile la Symphonie Fantastique di Berlioz resta quella spiccata propensione virtuosistica del direttore che deve misurarsi con il virtuosismo del compositore; un virtuosismo che non deve limitarsi alla tecnica strumentale, ma informare di sé anche l’aspetto fantasioso e l’espressività di questa partitura, intenzione che non abbiamo colto nell’intera esecuzione, da parte di Rhorer, il più delle volte “Fredda ed immobile come una statua” per giocare con Gioachino Rossini, ad esclusione del sabba finale. Applausi del pubblico in tribunetta pronti per il bis, ma gli orchestrali non recepiscono e si abbracciano tra loro,  mentre partono i fuochi artificiali dalla frazione di Torello a “colorare”, finalmente, la notte ravellese.