Ultimo concerto classico per la kermesse con l’Orchestra del Teatro San Carlo, condotta da Marco Armiliato, senza sbavature, fresco e coinvolgente con un pubblico entusiasta che ha purtroppo è stato mandato a casa senza bis
Di Lucia D’Agostino
Sta per concludersi il Ravello Festival e uno degli ultimi appuntamenti è stato il concerto con protagonista l’Orchestra del Teatro di San Carlo di Napoli, per la seconda volta quest’anno, diretta da Marco Armiliato. Il maltempo improvviso ha costretto orchestrali e pubblico a “riparare” all’Auditorium Oscar Niemeyer con un cambio di programma e inizio con mezz’ora di ritardo, gestito egregiamente da tutta l’organizzazione, che non ha tolto nulla al risultato finale della serata in gran parte dovuto alla conduzione moderna e grintosa del direttore d’orchestra. Di origini genovese, cresciuto in una famiglia dove la musica è di casa (suo fratello Fabio è un tenore), a suo agio soprattutto nella direzione della lirica dove si è procurato una fama a livello internazionale (di casa al MET di New York, all’Opéra de Paris e alla Wiener Staatsoper) Armiliato è un sostenitore appassionato della divulgazione della musica classica ad un pubblico trasversale che coinvolga giovani e chi da quella fruizione in genere si tiene fuori. Una passione che traspare da una carica energetica, libero sul palco senza leggìo e spartiti, trascinante per i 44 musicisti impeccabili nell’esecuzione del programma incentrato su Franz Schubert con l’Ouverture in re maggiore “im italienischen Stile”, D.590 e l’Ouverture in do maggiore “im italienischen Stile”, op.170, D.591 e Johannes Brahms con la Serenata n.1 in re maggiore per orchestra, op.11di Brahms. Concerto senza sbavature, fresco e coinvolgente con un pubblico entusiasta che ha purtroppo fatto a meno di un bis. A chiusura di questa edizione particolare, che ha dovuto fare i conti con la riduzione dei posti e il rispetto del distanziamento fisico, ci piacerebbe fare una considerazione a margine di una intervista rilasciata qualche giorno fa dal direttore artistico del festival Alessio Vlad. Premesso che almeno quest’anno si è avuto il buonsenso di fare marcia indietro rispetto al 2019 dove l’idea di rivoluzionare la rassegna coinvolgendo solo orchestre italiane, all’insegna del Made in Italy, è stata fallimentare, vogliamo tornare sul tema dell’interdisciplinarietà che aveva caratterizzato il Ravello Festival soprattutto negli ultimi anni seguendo una crescita ed evoluzione naturale e senza forzature. Vlad sostiene di voler tornare alle origini, focalizzandosi solo sulla musica classica in nome del nume tutelare di Richard Wagner da cui tutto è partito, con ospiti anche internazionali. Il jazz, almeno come quest’anno, se tutto va bene relegato, ad una sezione collaterale, e la danza, ad esempio, fuori. Per Vlad il faro diventano Salisburgo e Lucerna, e chi cerca qualcosa di diverso può andare a Spoleto e a Ravenna. Va ricordato non solo che numeri alla mano, diversamente da quanto sostiene, gli introiti della biglietteria fino al 2016 sono stati consistenti (una voce non proprio irrisoria nel bilancio) e si sono dimezzati nei tre anni successivi con il cambio di natura, il che significa che l’afflusso di pubblico si è modificato. Ma che Ravello è un’anomalia, bellissima anomalia, non solo in Campania, ma in tutto il Sud dove fino a qualche anno fa stranieri e non solo prenotavano appositamente in uno dei luoghi più belli al mondo per non perdersi uno spettacolo, un concerto, anche jazz, anche pop, proprio qui sul Belvedere di Villa Rufolo che è uno spettacolo nello spettacolo. Ravello è sì la Città della Musica ma è anche qualcosa di più, è la magia di un concerto, di una performance creativa che dal contesto riceve un valore aggiunto, dove il paesaggio, l’atmosfera sono protagonisti a pari merito dell’arte. Si eviti l’errore di volerla ridurre, per modo di dire, a sola rassegna di musica classica. Il Festival di Ravello è molto di più, un di più che va valorizzato con le dovute competenze, non mortificato.