Ci sono processi che nella vita professionale di un avvocato ti rimangono impressi più degli altri, anche se ogni processo che fa un avvocato penalista ti lascia un qualcosa che accresce la sua esistenza, al di là dell’aspetto puramente tecnico. Senza voler fare alcuna classificazione di valore, il penalista si occupa dell’anima del proprio cliente, il civilista del portafoglio del cliente; il penalista si occupa di beni immateriali come la libertà, l’onore, il prestigio, la resistenza contro la prepotenza, il civilista di beni materiali come il patrimonio. E’ chiaro che si tratta di una differenza grossolana e molto relativa, basterebbe ricordare gli affari di famiglia e dei minori per i civilisti, ma la premessa mi serve per poter parlare di un processo di quelli che mi hanno lasciato dentro un forte dispiacere e anche una grande soddisfazione. Si tratta del processo a carico del dott. Raffaele Fabbrocino ex Dirigente del Banco di Napoli e, all’epoca dei fatti Amministratore Delegato e Direttore Generale dell’ ISVEIMER. Un uomo potentissimo, per bene, onesto e innocente che venne arrestato e sbattuto in carcere a Poggioreale all’alba del 10 dicembre 1996. L’accusa era “falso nel bilancio ISVEIMER dell’anno 1993”. Il dott. Fabbrocino che raggiunsi a casa sua prima che venisse portato in carcere dalla Polizia era frastornato, aveva tra le mani l’ordinanza cautelare firmata dal GIP del Tribunale di Napoli e continuava a dirmi che lui non sapeva niente di quanto era scritto nel capo di imputazione. Era vero! Insieme a lui l’ordinanza raggiunse altri 4 imputati, tutti vertici della finanza, uomini politici di primaria importanza in Puglia; la notizia fu diffusa su tutta la stampa nazionale e internazionale (una delle operazione “incriminate” era stata fatta con la Merril Lynch, banca inglese, e i depositi erano in Lussemburgo), e ci fu una forte scossa in Borsa a Milano con molte perdite per gli investitori (fu definito “terremoto nelle borse”) Dopo due giorni trascorsi a fare “previsioni” con i figli Donato, Gennaro e Daniela e con la moglie Antonietta, muta in un silenzio che esprimeva più dolore di qualsiasi parola, facemmo l’interrogatorio a Poggioreale. A fronte dell’orario nella convocazione, ore 17, l’interrogatorio ebbe inizio alle 22 circa. Durante questa attesa dovuta allo svolgimento degli altri interrogatori dei coimputati detenuti a Poggioreale, trascorsi l’intero periodo con il dott. Fabbrocino che, munito di matita e taccuino aveva già steso una serie di riflessioni sulle assurdità che gli contestavano. Ricordo che, con le lacrime agli occhi, mi disse che aveva ricevuto una “accoglienza” da parte dei detenuti con i quali condivideva la cella, che non si aspettava e che neanche meritava. Alla mia domanda del perché non sentisse meriti in tal senso mi rispose che non meritava perché non aveva mai pensato nella sua vita alla sventura di queste persone che, benché abbiano commesso un reato, hanno una umanità superiore a tante “persone per bene”. Mi disse testualmente che nel suo lavoro non avrebbe mai preso in considerazione una pratica di un “galeotto” che avesse chiesto aiuto alla banca, ma che quei “galeotti” gli avevano dato aiuto senza che lui neanche lo avesse chiesto, gli avevano rifatto il letto e lo avevano “consolato”. All’interrogatorio partecipò anche il Pubblico Ministero che aveva sbagliato tutto per inseguire un teorema “politico” che risultò essere l’esatto opposto del suo ragionamento. In quella fredda sera di dicembre alle ore 22 circa, al momento dell’inizio dell’interrogatorio, alla prima domanda che fece proprio quel PM, fu subito tutto chiaro: “perché non avete dato i soldi del finanziamento a Berlusconi?”. Era una domanda completamente fuori tema e relativa a un fatto che non ci era contestato e che non costituiva reato. Il PM cioè, invece di volere spiegazioni sul falso in bilancio, voleva sapere un “pettegolezzo”, e, per sapere questo fatto, aveva fatto mettere in carcere 5 persone e aveva quasi fatto crollare la Borsa di Milano. Aveva, inoltre fatto arrestare 5 persone nel dicembre 1996 per fatti che forse erano avvenuti nel 1993, persone che non ricoprivano più alcuna carica all’interno dell’ISVEIMER che proprio nel 1996 prima degli arresti era stato sottoposto a liquidazione e si avviava a scomparire. Aveva arrestato 5 persone nonostante le “prove” erano tutte documentali e consistevano nel rapporto di ispezione svolto dalla Banca d’Italia nel 1994. In estrema sintesi nessuna esigenza cautelare poteva giustificare una simile misura, l’unica esigenza era quella di poter “scoprire” qualcosa contro Berlusconi che all’epoca aveva stravinto le elezioni e viaggiava verso l’abbattimento delle regole e ragioni della I Repubblica. In buona sostanza se la medesima operazione finanziaria, appostata in bilancio nel medesimo modo, avesse riguardato una società di chiunque altro, ma non del Cavaliere, forse, e dico forse, ci sarebbe stato un processo, ma sicuramente, e dico sicuramente, a piede libero come nella logica delle cose e del diritto. La vicenda: nel 1993 una società del gruppo Fininvest, la Istifi, aveva fatto una richiesta di mutuo alla ISVEIMER di 170 miliardi di lire. L’istituto di credito aveva trovato la provvista tramite l’ufficio estero presso la Merrill Lynch, banca d’affari inglese e l’aveva depositata su un proprio conto presso il Banco di Napoli sede di Lussemburgo (l’ISVEIMER non faceva operazioni di cassa e per queste procedeva tramite il Banco di Napoli di cui era una emanazione e da cui era controllata). La particolarità di questa operazione posta in essere tra ISVEIMER e Merrill Lynch era legata al rischio che entrambi i contraenti correvano al momento della restituzione del capitale: era stato stabilito che alla data di scadenza del mutuo, dopo tre anni, l’ISVEIMER o chi per essa, avrebbe dovuto restituire l’importo ricevuto rapportato al valore, in quel giorno, del franco svizzero. In parole povere, se quel giorno il franco svizzero avesse avuto una valutazione uguale o minore del giorno della erogazione, non sarebbero stati corrisposti interessi, se invece il franco avesse avuto una valutazione maggiore sarebbe dovuta essere corrisposta la somma a quel valore incrementato: si chiama in termine tecnico operazione di swatc. Ora era avvenuto che il 2 febbraio 1993, l’allora direttore generale dell’ISVEIMER, prima che iniziasse il consiglio di amministrazione della società che avrebbe dovuto deliberare l’erogazione del mutuo in favore a Istifi passando a quest’ultima anche il rischio di swatc, ritirò “la pratica per approfondimenti istruttori”. In pratica, poiché non fu più messa all’ordine del giorno nei successivi consigli di amministrazione l’erogazione del mutuo, i soldi e il rischio connesso, rimasero a ISVEIMER sul conto in Lussemburgo acceso presso il Banco di Napoli. In tutta questa storia Fabbrocino era Dirigente del Banco di Napoli dell’intero settore del personale in diretto contatto con l’allora presidente Ferdinando Ventriglia passato alla storia come “re Ferdinando” per il ruolo di potente rivestito all’interno dell’istituto di credito. Il nostro Ferdinando era nato a Napoli nel 1927. Amico di Giulio Andreotti rimarrà legato alla Democrazia Cristiana per tutta la vita senza tuttavia mai inscriversi al partito. Braccio destro di Pietro Campilli Ministro della Cassa del Mezzogiorno divenne consulente di Emilio Colombo Ministro del Tesoro e ha goduto dell’amicizia e della stima di Guido Carli Governatore di Bankitalia che lo avrebbe voluto come suo successore a governatore di Bankitalia; venne sfiorato dallo scandalo Sindona (coinvolto nello scandalo, indagato, accusato, processato e assolto). Per quello che riguarda Fabbrocino nel 1983 divenne prima Direttore Generale e poi Amministratore Delegato del Banco di Napoli che dirigerà fino al 1993. E proprio su designazione di Ventriglia, Fabbrocino, entra in ISVEIMER il 3 settembre 1993 e succede al suo collega che aveva istruito e gestito la pratica Istifi, praticamente nessun ruolo ha avuto nell’istruire la pratica, nell’acquisire la provvista, nell’accollarsi il rischio, nel non avere erogato alla società richiedente il mutuo. Però Raffaele Fabbrocino aveva firmato il bilancio 1993 della ISVEIMER nel quale, secondo la prospettazione accusatoria, non era stato bene evidenziato il rischio della operazione di swatc. Dopo l’interrogatorio il GIP concesse gli arresti domiciliari a Fabbrocino che rientrò a casa sua la stessa notte e poté riabbracciare i suoi cari. Non ho mai potuto discutere il riesame dell’ordinanza cautelare che avevo immediatamente richiesto perché, con una mossa a sorpresa, il GIP revocò anche gli arresti domiciliari prima del 4 gennaio 1997 data in cui era fissata l’udienza. Si arrivò allora alla udienza preliminare nella quale, direi come da prassi, fu disposto il rinvio a giudizio davanti la V sezione penale del Tribunale di Napoli. Il commento di Fabbrocino all’esito della udienza al cui esito lo avevo preparato, fu semplicissimo: “perché tutto questo tempo e non si inizia la prossima settimana?”. Il processo ebbe un avvio difficoltoso, uno degli imputati era difeso dall’avv. Vincenzo Maria Siniscalchi che all’epoca era deputato della Repubblica e componente di diverse commissioni. Fu necessario, perciò, trovare una soluzione che garantisse la presenza del difensore e lo svolgimento “celere” del processo così come richiesto dal PM (lo stesso delle indagini e degli arresti sbagliati). Si decise allora di celebrare tutto il processo di pomeriggio e tutti i mercoledì dei mesi di marzo, aprile e maggio 1998; si sarebbe terminato entro giugno, massimo, inizi luglio. Sembrava un processo americano, di quelli alla Perry Mason per intenderci. Ogni udienza io e il buon Raffaele Fabbrocino con il quale ormai ero in confidenza, ci portavamo in auto a Napoli per celebrare le udienze sempre in compagnia del taccuino e delle penne, una nera e una rossa. In questi viaggi ho avuto ancora di più l’occasione di potere apprezzare quanto “puro” fosse quell’uomo nonostante avesse svolto una vita in Banca dove non aleggia tanta “purezza”. Fabbrocino era una persona innanzitutto buona che anche quando doveva “condannare” qualcosa che non condivideva, lo faceva con dispiacere, non “condannava”, si “dispiaceva” che quel tale avesse fatto quella cosa per lui disdicevole. Fabbrocino era una persona onesta: il suo atteggiamento verso il lavoro, ma più in generale verso il dovere era di una intransigenza senza limite. Il dovere innanzi tutto (forse anche un po’ eccessivo) Fabbrocino era sensibile: a fronte di una scorza da duro, da comandante, dentro era tenero e lo si capiva quando parlava della famiglia e quando osservava la natura. Era innamorato della moglie che conosceva fin dall’infanzia a Lagonegro loro paese di origine; stimava i propri figli con un “debole” per Daniela la piccola di casa, ma con uguale affetto verso i maschi che non perdeva mai occasione di elogiare rigorosamente in loro assenza. Lui ha partecipato a tutte le udienze, io ne ho saltate alcune che erano destinate ad attività che non riguardavano la sua posizione. Non c’è stata ragione per convincerlo che poteva non presenziare in quelle udienze: niente da fare, era per lui un dovere, un rispetto per i giudici, un diritto che andava esercitato e basta. Del resto mi è stato detto dal Dott. Antonio Picardi, nostro consulente nel processo, ex direttore del Banco di Napoli ufficio studi, che anche sul lavoro era lo stesso, arrivava in banca da direttore, prima degli impiegati. Inutile dire che alle udienze che non partecipavo si scatenava la rissa in studio tra i miei collaboratori che volevano andare con il Dott. Fabbrocino. Ricordo ancora come mi sottoponeva il taccuino al momento di svolgere il controesame dei testimoni indicandomi con il dito indice il punto importante. Ricordo le sue descrizioni del cielo e i paragoni con i quadri di Giacinto Gigante che gli piacevano molto come un po’ tutta la pittura napoletana dell’800. Anche in questo era intransigente; nonostante avessi tentato di fargli apprezzare altri tipi di pittura da Picasso a Chagall, non c’è stato niente da fare e, l’unico compromesso, lo abbiamo raggiunto su Biagio Mercadante pittore di Torraca mio paese di origine, vicino a Lagonegro, il suo paese. Comunque la marcia trionfale del PM ebbe un brusco arresto in un pomeriggio di aprile. A una mia domanda al consulente del PM, a colui che avrebbe dovuto fornire all’accusa gli elementi tecnici su cui chiedere la condanna, questi, un commercialista siciliano, rispose, in sintesi, che Fabbrocino era innocente. Apriti cielo, il PM insistette per circa mezz’ora affinché il suo teste ritrattasse o correggesse quanto aveva detto (ha perfino ipotizzato che non avesse ben compreso la domanda). Niente da fare il consulente, anche imbarazzato dall’incalzare del PM che alzava anche la voce, rimase fermo sulla sua risposta perché aveva detto il vero. Si finì quando il Presidente del Tribunale intervenne e non ammise più le domande del PM su quel punto. Da quel momento è iniziato lo strazio di Fabbrocino. Al mercoledì successivo i testi dal PM non comparvero e il rappresentante dell’accusa chiese un rinvio più lungo, perché impegnato. Lo stesso PM che si era irrigidito all’inizio e ci aveva costretto alle udienze pomeridiane, ora chiedeva di rinviare più a lungo. Alla udienza del 3 giugno, giorno dopo il mio compleanno dove ricevetti in regalo da Fabbrocino una cravatta di Marinella, il PM si scusò di non avere citato i testi; si arrivò a ottobre e poi a dicembre e poi a marzo etc. . In tutto questo la domanda fissa di Fabbrocino era la seguente: “perché avvocato non facciamo più come all’inizio ogni settimana?”. Che rispondergli a quella persona con il taccuino ormai vuoto dove su alcuni fogli era solo scritta la data della udienza e niente altro perché niente era avvenuto? Egli non credeva alla mia tesi “maligna” che il PM da quando ha capito che aveva “perso” (ammesso e non concesso che un PM perda o vinca), ha rallentato il ritmo per allontanare la data della assoluzione da quella degli arresti ingiusti. Era troppo “puro” per una tale visione dei fatti! Sta di fatto che trascinati da questo ritmo nuovo per quel processo, ma normale per gli alti, arrivammo a novembre 2000.Requisitoria del PM, impersonato in quella udienza da altro magistrato, che ha chiesto l’assoluzione degli imputati; prime discussioni dei difensori e fissazione della mia sola discussione al 6 dicembre, udienza nella quale sarebbe stata pubblicata la sentenza mediante lettura del dispositivo in aula; impegno a discussione breve da parte mia nell’ordine di non più di mezz’ora. Fabbrocino, con una richiesta di assoluzione, stranamente non era contento e nel viaggio di ritorno mi chiese perché non avessimo fatto tutto oggi. Io gli dissi che finire un processo alle 19 non era una cosa comoda per il Tribunale che si sarebbe dovuto ritirare per decidere e uscire chissà quando e perciò era stata una decisione dettata da motivi di opportunità e ragionevolezza “che volete che cambino una ventina di giorni…..?”. In effetti non fu come avevo detto: cambiò tutto! La mattina del 23 novembre a telefono fui raggiunto dalla voce rotta dal pianto di Daniela che mi annunciava che il padre era morto durante la notte, nel sonno. Non aveva sofferto, forse perché erano 4 anni che soffriva e potevano bastare! Aveva 65 anni, la mia età di oggi: era morto di processo anche se ufficialmente di infarto! Dire che ci rimasi male è riduttivo, ci rimasi di più: avevo perso un amico a cui non ero riuscito a dare la soddisfazione di sentire, con le sue orecchie, che “in nome del popolo italiano” era innocente. Certo non avevo colpe, però non mi bastava. Allora decisi di fare una cosa particolare: l’udienza era dopo 12 giorni e non ci sarebbe stata nessuna comunicazione del decesso al Tribunale; mi raccomandai con i due coimputati che vidi al funerale di non divulgare la notizia e di non informare neanche i loro avvocati; chiesi l’aiuto di Domenico Ducci un grandissimo avvocato di Napoli, anche lui nel collegio dei difensori di quel processo, oggi purtroppo prematuramente scomparso, affinché nessuno comunicasse niente al Tribunale. La mattina del 6 dicembre 2000, da solo, senza neanche un mio collaboratore di studio, con la toga e il suo taccuino sul sedile anteriore al posto sempre occupato da Fabbrocino, mi recai a Napoli. All’appello Fabbrocino: assente. Non dissi niente lasciai che fosse l’assistente di udienza a dichiararlo e pensai che la cosa dovette suonare strana alle orecchie e agli occhi del Tribunale che lo aveva sempre visto in aula con i suoi eleganti vestiti di taglio sartoriale, sempre ben curato nell’aspetto e, questo lo so io, sempre profumato con una acqua di colonia inglese e con il fedele taccuino tra le mani. Discussi meno di mezz’ora e il Tribunale si ritirò in camera di consiglio per un’oretta circa per poi uscire e dichiarare Fabbrocino innocente per “non avere commesso il fatto”. Feci assolvere un morto, cosa non prevista dal nostro ordinamento, ma la fine della vicenda con una sentenza di “non doversi procedere per morte dell’imputato” non sarebbe stata giusta. Sarebbe stata secondo legge, legale, ma non giusta. Feci perciò Antigone della situazione e mi andò meglio della fanciulla greca. Raffaele Fabbrocino è, dunque una persona che è stato arrestato ingiustamente solo nella speranza che potesse, in vinculis, cioè sotto la moderna tortura, insieme agli altri, accusare di presunte corruzioni o tentativi di corruzione Berlusconi o i suoi uomini cosa che non era accaduta. La verità era all’opposto e cioè che quel mutuo non venne erogato e si ritirò “la pratica per approfondimenti istruttori” perché non doveva essere finanziato questa a persona che aveva creato un nuovo soggetto politico che andava a distruggere un apparato già vacillante sotto i colpi di tangentopoli. Il tutto alle spalle di Fabbrocino che non era presente al momento della richiesta di Istifi, al momento dell’acquisizione della provvista e al momento del ritiro della pratica. Di tutto questo Fabbrocino sapeva solo per quanto riferito dal direttore del servizio estero ISVEIMER che gli aveva comunicato, prima dell’approvazione del bilancio incriminato, che la “pratica veniva portata in consiglio di amministrazione il 2 febbraio 1993 e ritirata per approfondimenti”. Da quel documento mai e poi mai Fabbrocino avrebbe potuto sapere che il CDA non era informato della pratica perché dal dato letterale si comprende esattamente l’opposto (“la pratica veniva portata in consiglio di amministrazione). Quel documento era così scomodo per l’accusa da avere suscitato le ire del PM una volta sottoposto al suo consulente che non potette che ammettere la più semplice delle verità: Fabbrocino non aveva alcun dovere di comunicare una cosa di cui il CDA era già a conoscenza e che aveva, in un certo senso (rinvio per approfondimenti), deliberato. Che cosa resta? L’amaro in bocca e il ricordo di Fabbrocino il 19 agosto 2000 sul sagrato della chiesa dei Cordici di Torraca che commosso assisteva in prima fila, insieme alla moglie e a Daniela, al concerto per solo pianoforte, da me organizzato in memoria di mio padre musicista, che avevo perso due anni prima. Dopo tre mesi Fabbrocino lo avrebbe raggiunto. Giovanni Falci
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