di Antonio Manzo
<Sono rimasto con il cerino in mano> dice Peppino Amato junior mentre, al di là della vetrata del ristorante, gli operai e le gru demoliscono quel che fu il “pastificio Amato”, la sigla intatta sul corposo muro del mulino ancora in piedi. Le macerie si accumulano e delineano una storia che, ancor di più della montagna di cemento distrutto, ci racconta quel che sta accadendo alla nostra vita di salernitani mentre si dismette una fabbrica che ha rappresentato un mito, bensì un mito caduco e ormai superato: era il luglio 2011 quando il tribunale di Salerno dichiarò il fallimento della ditta Antonio Amato respingendo perfino l’ipotesi di un concordato preventivo. Fu fallimento e per Peppino junior iniziò il calvario giudiziario dagli arresti domiciliari a 27 mesi di carcere e poi ai servizi sociali. Mentre il pastificio viene demolito Peppino junior centra gli occhi sulla demolizione e il cervello su una metafora nata nella prima guerra mondiale quando in trincea i soldati, per accendersi la sigaretta, si passavano di mano in mano un cerino. <E io sono rimasto con il cerino in mano> continua in una litania che sembra bloccarlo sulla strada della nostalgia. Perché lui, ultimo rampollo della dinastia di imprenditori della pasta, dopo venti mesi e passa di carcere ha aperto una seconda vita scegliendo prima la strada del volontariato, poi mille mestieri per sopravvivere ben sapendo che <la felicità non è legata al possesso materiale ma è la libertà> e con la ricchezza degli affetti che declama raccontando del figlio, Domenico, che sarà medico, studia all’università “Vanvitelli” e della figlia Ludovica, una scrittrice, già vincente al premio Strega-giovani. Il cerino è sempre acceso nelle sue mani, mentre racconta che <lì c’era una fabbrica a Mercatello ed oggi, proprio come la dismissione dell’acciaieria di Bagnoli, potrebbe essere al centro di un film con la sceneggiatura che racconti un’azienda degli anni della ricostruzione post-bellica fino a dentro gli anni del miracolo italiano>. <Io ricordo bene – racconta Giuseppe junior – quando negli anni Novanta, l’università Bocconi di Milano studiò alcuni casi italiani del produttivo capitalismo familiare.L’azienda Amato di Salerno, tra queste. Inutile dire che quell’orgoglio mi fece maturare ancor di più nella vita di azienda cominciata, giovanissimo , con partite a pallone che si concludevano sempre con una fetta di pizza di “Carminuccio a Mariconda” Io, delegato da tutti, ritiravo a fine partita>. Ma Peppino junior in azienda lavorava senza potere di firma e, soprattutto, senza voce nelle dinamiche aziendali che il nonno volle imporre fino alla morte imprenditoriale e fisica. Ora la storia parla delle ruspe in un “cimitero” industriale con scheletri abbandonati e che è solo una tappa di trasformazione, nella città della memoria dismessa, di passaggio al settore immobiliare senza poter neppure beneficiare dell’inventiva architettonica di Jean Nouvel che nel 2007 avrebbe voluto riqualificare il vecchio pastifico Amato. La nuova fabbrica era funzionante dal 1988 nella zona industriale, dopo la delocalizzazione post-terremoto. Il vecchio stabilimento che ora viene demolito fu costruito nel 1958 su progetto dell’ingegnere Giovanni Marano. Nacque Mercatello con case popolari senza stile né forma. Jean Nouvel aveva studiato bene il piano di recupero, con soddisfazione sbilenca di Giuseppe Amato e con la gioia dall’allora sindaco Vincenzo De Luca che avrebbe potuto inserire il nome del noto architetto francese nell’album della rivoluzione urbana. <La demolizione? È la fine di una civiltà e di un’epoca intera tra verità e menzogne – racconta Peppino junior – Ora quell’epoca vive solo al confine del ricordo, una narrazione di nostalgia e malinconia. Fare un inventario delle speranze e di tanti sogni, di tutte le illusioni? – si chiede oggi Peppino junior – Il bilancio non è possibile anche se il destino di Salerno con la fabbrica-principe non ha fatto crescere la coscienza civile della città. Sono rimasti quegli avvocati che Pier Paolo Pasolini descriveva come “unti di brillantina e piedi sporchi”, difensori della città dismessa, apparentemente perbene ma qualunquista. Mi ricordo quando nei giorni del carcere dovevo essere tradotto nel vecchio Palazzo di Giustizia, mi trascinavano con gli schiavettoni ai polsi senza che nessuno protestasse. C’era la fila di gente della città mediocre e cattiva che voleva dimostrare a se stessa che anche a Salerno si poteva avere giustizia vendicativa e sommaria. Proprio come Enzo Tortora ed Enzo Carra. Ho sbagliato, ho pagato ma ora sogno un impiego stabile per sopravvivere>. Peppino Amato junior vede dalla vetrata del ristorante la demolizione del vecchio pastificio senza abbandonarsi all’emozione, solo con il rigido imbarazzo di chi si sente, all’improvviso, un uomo ormai sulla difensiva nella città dove vive e che ora fa l’inventario di una cosa perduta. (Peppino Amato nei giorni dell’azienda e dopo il fallimento)