di Mario Fresa
Quest’anno è caduto, come ognun sa, il bicentenario del «Barbiere di Siviglia» di Gioachino Rossini che fu rappresentato, per la prima volta, martedì 20 febbraio 1816, al Teatro Argentina di Roma; sono pure ben noti i soprusi, i travisamenti, le distorsioni e i mutamenti che l’opera ha subito, nel corso del tempo: tagli di intere scene, sostituzioni di arie, trasposizioni di tono, eccessive variazioni. La stessa peculiare tipologia vocale dei personaggi è stata per un lungo periodo tradita e mal compresa: Almaviva si è trasformato quasi sempre, da tenore di forza qual era il primo interprete, Manuel García, in un anemico tenore di grazia; Rosina è divenuta, da mezzosoprano, un cinguettante soprano leggero; Figaro e Bartolo, invece, da «buffi» son diventati semplici baritoni; Basilio, nato «basso cantante» (vale a dire basso-baritono: si veda l’alta tessitura della sua aria) è stato, di norma, affidato a un basso puro. Per nostra fortuna, la meritoria Rossini-Renaissance, grazie alla cura e all’impegno di studiosi come Alberto Zedda e Philip Gossett, ha permesso, a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, di ripristinare i ’desiderata’ dell’autore, ricostruendo la partitura nella sua integrità e ristabilendo le precise identità vocali così come furono intese dal compositore. Perciò, gli errori più comuni della fallace e infedele tradizione dovrebbero, oggi, dopo anni di preparazione filologica, essere evitati; e ci si aspetterebbe, dunque, esecuzioni rispettose dell’esatta fisionomia vocale, orchestrale, drammaturgica di questo capolavoro. Non è così, purtroppo. Mercoledì 13 luglio, presso la desolante Arena del mare di Salerno, è stato messo in iscena un «Barbiere» all’insegna del pressappochismo e della superficialità. Responsabile dell’operazione è stata l’associazione Golden Benten Music, ideatrice di un laboratorio lirico nato soltanto nell’autunno scorso che ha avuto l’impudenza, e l’imprudenza, di allestire e di preparare, in pochissimi mesi, tre titoli che farebbero intimorire qualsiasi grande teatro: «La Traviata», «Il Barbiere di Siviglia», appunto, e «La Bohème». Cominciamo dalla regia, curata da Riccardo Canessa: un pasticcio, un nodo avviluppato di luoghi comuni presi in prestito da altre produzioni, con aggiunta di varie caccole e di lazzi da avanspettacolo. Il Canessa ha fatto recitare, ai cantanti, anche alcune sciocche frasette in vernacolo napoletano («Hanno tuzzuliato!»; e: «Mamm’ ’do Carmine!»): una invenzione cialtronesca. Noi l’abbiamo trovata deprimente, a dispetto del divertimento mostrato da certe signore salernitane, cafonescamente agghindate, che ci hanno deliziato col suono del loro cellulare sempre acceso. L’orchestra Sinfonica di Salerno, presuntuosamente intitolata a Claudio Abbado, ha toccato e più volte superato il comico involontario. A dirigerla, più o meno, è stato Elio Orciuolo: il quale saltellava allegramente sul podio, come invaso dallo spirito di Leonard Bernstein (ma il paragone si ferma qui!). Nebuloso, sgradevole e impreciso è stato il suono prodotto dagli orchestrali. Pessima, soprattutto, l’intera sezione degli archi: i primi e i secondi violini sempre sgraziati e stonati; i violoncelli – in ispecie nell’episodio strumentale del Temporale – hanno gracchiato in malo modo, siccome seghe poste in mano a un gruppo di taglialegna. Si noti, inoltre, che molti professori dell’orchestra, mostrando poco rispetto sia per la musica, sia per il pubblico, hanno più volte parlottato tra di loro, durante i recitativi. Veniamo al cast: Stefano Sorrentino, Almaviva, ha voce minuta e gentile e affronta discretamente le agilità; ma i suoni in alto risultano aperti e privi di squillo, e recita così così. Si è guardato bene dall’eseguire la grande aria finale, «Cessa di più resistere» (non pochi altri passaggi, comunque, sono stati omessi, senza giustificazione, dal direttore Orciuolo: ad esempio, nella parte finale del duetto Figaro-Almaviva del Primo atto, e nel Terzetto Rosina-Almaviva-Figaro del Terzo atto). Luciano Matarazzo, nel ruolo del titolo, ci è parso un attore modesto. Ha fatto udire una voce sufficientemente voluminosa, ma priva affatto di stile e di eleganza; si è dimostrato arronzone e negligente nelle fioriture. Don Bartolo lo ha impersonato Paolo Visentin: un giovane baritono dallo strumento vocale ancora grezzo e immaturo, goffissimo, peraltro, nei movimenti (il regista, inutile dirlo, ha trasformato il diabolico tutore nel solito vecchio rimbambito e cadente); il Don Basilio di Giovanni Augelli, un basso dal timbro opaco e dall’emissione sfocata, ha cantato «La calunnia è un venticello» un tono sotto, in Do maggiore (e si capisce! Perché cantandola come è scritta, si dovrebbero emettere, alla frase «va a crepar», due Fa diesis acuti, addirittura col punto coronato); eliminato vergognosamente, alla faccia della filologia, anche il ritornello della stessa Aria (ritornello che, per inciso, avrebbe dovuto essere variato; cosa scontata e ovvia, certo, ma solo per i professionisti, non per i dilettanti). Ivanna Tsapyuk non è un mezzosoprano così come stabilito da Rossini, ma un sopranino leggero dai mezzi vocali interlocutori. Sempre sull’orlo della stonatura, si è rivelata sciatta e pasticciona nella coloratura, risolta con un’asmatica aspirazione; inaudibili gli acuti, fissi come la sirena di un’ambulanza; quanto alle doti sceniche, la signora ha mostrato la medesima vivacità di un’oloturia sotto spirito. Per i recitativi secchi, non è stato utilizzato né un clavicembalo né un fortepiano (troppa grazia!), ma una tastiera Yamaha, tra l’altro suonata con metronomico grigiore e senza gusto alcuno per gli abbellimenti e per l’improvvisazione. Dobbiamo aggiungere altro? Forse sì: ma significherebbe, ahinoi, recitare il definitivo epicedio della musica, e in particolare del teatro d’opera, a Salerno.
critico musicale e letterario