di Giovanni Falci
“Immagina di svegliarti un giorno qualunque e scoprire di essere preda dei titoli delle news. Uno dei principali giornali del paese ha diffuso sulla prima pagina la seguente storia: sei stato visto all’entrata di un bordello di Londra in compagnia di una gang di criminali. Non c’è alcuna prova che tu abbia commesso un crimine, e l’unico appiglio della notizia è che è stata riferita alla stampa da un ufficiale di polizia, incaricato di investigare sulla gang in compagnia della quale sei stato presumibilmente scoperto. Costui, sospetti, cova rancore nei tuoi confronti: forse non gli aggrada la tua linea politica, o forse è invidioso della visibilità che hai ricevuto in quanto membro neoeletto del Consiglio comunale. Qualunque fosse la causa della controversia, la tua esistenza è stata irreversibilmente danneggiata. Non c’è capo d’imputazione, né possibilità di difenderti, né alcunché da confutare eccetto perfido gossip.”
Così scrive Sir Roger Scruton noto filosofo inglese scomparso nel 2020.
E così accade sempre più spesso anche da noi con i ripetuti articoli di stampa sui processi che vedono coinvolti uomini politici.
La “presunzione di innocenza”, altresì chiamata “innocenza fino a prova contraria”, è, ovvero dovrebbe essere, il faro che illumina il funzionamento giuridico delle società democratiche e che disgiunge il momento dell’accusa dal momento della colpevolezza.
Purtroppo, brusche incursioni di nuovi media all’interno della nostra civiltà e la complicità di media più vecchi, esasperati da esigenze di giustizialismo sommario, pongono la presunzione d’innocenza sotto un numero crescente di fuochi (segnando non poco le vite concrete degli individui e dei loro familiari) e confondono la separazione dei due suddetti momenti (accusa e colpevolezza) rendendola trascurabile.
Queste semplici considerazioni dovrebbero essere ricordate ogni giorno a chi scrive sui giornali o appare in trasmissioni televisive e inneggia alla “Giustizia” per risolvere problemi collegati alla politica.
La denunciata (ma spesso non provata) inadeguatezza degli uomini politici che ci rappresentano, non ha bisogno di giudici che intervengano, ma di confronto politico che porti a selezionare, da parte del popolo, il meglio.
Le vessazioni nei confronti di un individuo che riveste ruoli di amministratore e ruoli politici, squadernate dinanzi al mondo da più testate giornalistiche e televisive, non sorprendono più, perché sono state disinserite le nostre vecchie abitudini che presupponevano rispetto.
Viene da chiedersi, allora, quale sia la causa di questa soppressione.
Sicuramente non è la malizia fortuita di un poliziotto monello come nel caso citato da Scruton.
È invece, secondo me, una delle innumerevoli conseguenze della cultura promossa dai social media.
Facebook e Twitter hanno invaso e privatizzato la sfera pubblica, esponendo incessantemente i nostri segreti e spogliando tutte le figure pubbliche della foglia di fico.
Purtroppo, questo cambiamento è stato accolto più con entusiasmo che con repulsione dal popolo italiano, la maggioranza del quale passa la propria giornata “condividendo” immagini di sé, twittando opinioni ridicole e, per sommi capi, agendo come se lo scopo dell’esistenza fosse quello di attirare l’attenzione sui loro risibili tentativi di partecipare a essa. In tali circostanze la distinzione tra vero e falso comincia a erodersi, allo stesso modo di quella tra accusa e colpevolezza.
E così proliferano gli inni alla “giustizia” che arresta un politico e che quindi “seleziona” gli uomini politici che dovranno governarci.
In termini di densità è improbabile che la verità possa essere contenuta nei 280 caratteri ora consentiti.
“Entriamo in un mondo in cui la perfidia del gossip è paritetica all’onesta carità, e le emozioni della massa calpestano i più elementari appelli alla giustizia.” ha scritto sempre Sir Roger Scruton.
Allora sarebbe interessante istituire un “Ministero della Verità” per intervenire e regolare le storie infanganti pubblicate su tutti coloro che hanno un’influenza pubblica.
Scherzi a parte il suggerimento più serio è regolare bene la radice della cultura che è l’emulazione.
A causa di uno schermo di un telefono in mano, stiamo imparando a emulare ciò che è sotto di noi; la cultura tradizionale riguardava, invece, l’imitazione di ciò che è sopra di noi.
Bisogna sforzarsi di promuovere un rinnovamento culturale, attraverso l’insegnamento e l’esempio, e attraverso la drammatizzazione degli abusi (vedi Shakespeare che ha drammatizzato l’abuso della legge in Il mercante di Venezia).
Dobbiamo spiegare ai bambini la presunzione di innocenza che è collocata nel cuore della nostra eredità legale, e dobbiamo insegnare la protezione di essa da intimidazioni e sfruttamenti che la riguardano.
Dovremmo mostrare perché il rispetto per gli altri implichi il rispetto per la loro privacy.
Tutto ciò è più facile a dirsi che a farsi, come lo è qualsiasi cosa davvero di valore.
E allora gli insegnanti dovrebbero vedere come loro principale obiettivo quello di allertare gli allievi dinanzi alle nuove tentazioni della rete che diventa ragno, affinché possano approcciarsi ad altre persone con rispetto.
Questa educazione è ciò che Platone intendeva come “cura dell’anima”, e la considerava l’indispensabile fondamento della vita politica.
Credo che su questo argomento Platone avesse ragione, definendo un compito che investe tutti noi, inclusi i media nazionali.
1 Commento
Io invece ricordo gli stessi identici meccanismi quando i social media non esistevano, come nel 1992, dove bastava un avviso di garanzia pubblicato sui giornali o sbandierato dalle Tv per essere già condannati dall’opinione pubblica.
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