Sarà il “dolcissimo soffrir” del genio toscano a inaugurare la stagione lirica del teatro Verdi ad aprile. Dopo l’Adriana Lecouvreur un’altra opera d’elezione che “abita” la bacchetta di Daniel Oren. Seguiranno l’Italiana in Algeri , mentre l’Aida in onore di Franco Zeffirelli chiuderà la stagione
Di Olga Chieffi
Quasi pronto il cartellone lirico per la nuova stagione del teatro Verdi di Salerno, che prenderà il via in aprile. Nell’anno che farà da preludio al centenario dalla morte di Giacomo Puccini, la scelta del direttore artistico del nostro massimo è caduta su Manon Lescaut, poco rappresentata in questo ultimo lasso di tempo, in città. Personalmente ne ricordiamo appena due la prima nel 2006 firmata, al tempo, da Michele Mirabella e diretta da Giuseppe Di Stefano, la seconda nel 2014, realizzata dal binomio composto dal regista Renzo Giacchieri e dal direttore Roberto Paternostro, un titolo di non certo facile lettura e tessitura, con quel suo “dolcissimo soffrir”, in cui Puccini ha impastato uno scintillio che ha bisogno di nervi tesi per essere interpretato, perché non sia restituito come semplice vapore di galanteria. Puccini simula la galanteria: simula cioè, un immaginario Settecento che non ha alcuna consistenza realistica, seppure sembrerebbe averla, in particolare in qualche passo del secondo atto, ma si tratta di altro. Puccini aveva in mente un fuoco sensuale da sfiorare con delicatezza estrema: quei brucianti assedi del corpo che la giovinezza subisce e vive con allegrezza patetica, ma anche con stordimento, con cecità. E’ la sensualità dove c’è tutto con indifferenza, il male e il bene, l’avventura e la verità della passione, la morsa feroce della carne e la gioia di abbandonarvisi come al ristoro dell’acqua di mare. Manon Lescaut è, forse, l’opera di Puccini dove il destino della musica italiana dell’Ottocento viene incenerito tutto intero, e viene presagito un futuro che altre pagine memorabili, da Bohème a Turandot, avrebbero via via decantato. Un bel cimento che da sempre “abita” la bacchetta di Daniel Oren e per la quale lo scenografo Alfredo Troisi già sta preparando i bozzetti per costumi e scene. Se Giacomo Puccini “abita” la punta della bacchetta del Maestrissimo, il cielo del nostro massimo è casa Rossini. L’omaggio al cigno di Pesaro sarà la sua “Italiana in Algeri”, una delle opere che immediatamente ebbe successo, con tutti i teatri che l’avevano in repertorio, poi scomparsa tra la fine dell’Ottocento e i primi vent’anni del Novecento e in auge dal secondo dopoguerra con l’avvento dei grandi mezzosoprano e contralti protagonisti, da Teresa Berganza a Marilyn Horne. Sul palcoscenico vedremo le avventure dell’italianissima Isabella, che conosce la grande, squisitamente femminile arte di rendere fessi gli uomini, specie se turchi e per giunta califfi, bey, in fregola per rinforzare gli harem, tra archi, pozzi e lune turche. La “folie organisée et complete” la definì Stendhal e la musica, sotto le sferzate d’una travolgente inventiva, è spesso portata a spaziare nell’ambito d’una comicità surreale, svincolata da qualsiasi legame con la plausibilità e il senso comune, che prevede una sezione di legni virtuosa, che abbiamo in buca, e una fanfara pari. Un che di insolente invase nel 1813 l’universo del melodramma e la corsa al surreale si fece vorticosa: per ottenere simili effetti nel dramma, osservò con finezza Giulio Confalonieri, si sarebbe dovuto arrivare a Wagner. Ecco che questa vena di cattiveria che pervade l’insieme del “buffo”, senza distinzione di ceti e di censi a partir dall’Italiana di un Rossini poco più che ventenne, consentirà al musicista di addentrarsi nel regno della critica sociale: parvenues, blasonati, barbieri, ecclesiastici, donnine smiagolanti e militari, tutti verranno investiti da identica corrente di malizia e nessuno vale più per buono o cattivo, lo sono tutti e nessuno. Terzo titolo in cartellone è un’opera che immaginiamo la triade Oren, Marzullo e Lo Iudice, abbia inserito per celebrare il centenario della nascita di Franco Zeffirelli, un regista al quale il teatro Verdi di Salerno è legato a filo doppio, per un’originale mise en scene proprio di Traviata, in quella stellare stagione del 2008 e per la ripresa, l’anno successivo, della sua Aida, pensata per il teatro di Busseto, che si adattò splendidamente alle tavole del nostro massimo, una sfida particolarmente attraente sul piano della messinscena: ficcare un Grand-Opéra verdiano in un teatro piccolo, ma lasciandolo tale, con tutta la vocazione alla visualità e al décor grandioso che è proprio del genere, anzi abbracciando senza inibizioni un’idea tradizionale, o, se si vuole, nostalgica, della messinscena operistica. Si lodò allora soprattutto la soluzione elegante adottata da Zeffirelli per risolvere il monumentale Trionfo del secondo atto. Trionfo lasciato all’immaginazione: ci si finge, infatti, alle spalle della terrazza regale da dove la corte ammira la sfilata che noi non vediamo, componendo un elegante tableau da pittura storico-archeologica ottocentesca. Tra barbarismo ora violenti ora languorosi, la musica la conosciamo bene tutti: Verdi si mantiene nel giusto centro, che compensa atmosfere musicali coloristiche con altre di maggiore interesse umano, contornando con segni più marcati alcune situazioni preveriste, accordandole alla sua tavolozza descrittiva già impressionista, come nelle scene notturne. Naturalmente, questo è solo un anticipo su ciò che sarà una lunga stagione che prevederà anche una buona dose di balletto, concerti classici e molto “extra-colto”, una strambata con tante sorprese che lo scorso anno ha avuto molto successo tra il pubblico del teatro Verdi.