Tema. Elsa Morante. Svolgimento.
Di Federico Sanguineti
Negli anni Settanta del secolo scorso, un uomo di spettacolo non ancora quarantenne, Carlo Cecchi, mette in scena, con filologica fedeltà, un testo di Antonio Petito. Accade in tal modo che, nell’assistere a una rappresentazione di questo capolavoro del teatro napoletano dell’Ottocento, un ventenne torinese, trovandosi a risiedere a Genova, decida di seguire una scuola di recitazione del Teatro Stabile del capoluogo ligure appunto perché fra i docenti è, in quel periodo, il regista di ’A morte dint’ ’o lietto ’e Don Felice, il quale nel frattempo è impegnato nell’allestimento di un altro lavoro: un Molière tradotto da Cesare Garboli. Quando, il 18 aprile 1977, Il borghese gentiluomo è rappresentato al Teatro dell’Archivolto, fra il pubblico è presente Elsa Morante (1912-1985) che, incontrando il suddetto aspirante attore, a lei additato da Cecchi, gli dona (con parole aggiunte di suo pugno) una copia del Mondo salvato dai ragazzini, opera definita giustamente da Claude Cazalé Bérard come “non catalogabile”, in quanto “metafora e paradigma di una necessaria e feconda migrazione di testi”. Perché l’appuntamento con Elsa non meno che la lettura dei suoi libri è, per chiunque, un’esperienza indimenticabile? Risposta: è l’incontro con chi, sempre e in ogni caso, pone (sono categorie presenti in Pro o contro la bomba atomica) “l’attenzione, l’onestà e il disinteresse” come “condizioni necessarie”. Si comprende così l’auspicio formulato dalla scrittrice nella sua dedica autografa: la speranza di conoscersi meglio. Al di là della morte, questa speranza di “conoscersi meglio” è ora realizzabile grazie a Rossana Dedola, che dà alla luce un volume di 562 pagine. Chi abbia presente L’idiot de la famille di Sartre, dove, dando per scontato che la domanda non possa che riguardare un essere di sesso maschile, ci si chiede che cosa si sa di un uomo oggi, nel leggere Elsa Morante l’incantatrice (Torino 2022) ha una sorpresa. La misoginia del filosofo francese è qui rovesciata, ponendosi a ogni pagina, non importa se consapevolmente o meno, il problema di che cosa si può sapere di una donna oggi. Ed ecco che, mentre il maschio esistenzialista non può che smarrirsi in cattive infinità e profondità nel tentativo di rispondere a che cosa sappiamo oggi di Gustave Flaubert, Dedola ‒ analista dell’International School of Analytical Psychology di Zurigo ‒ conduce invece a termine, liquidando ogni stereotipo di genere, un’impresa persino più impegnativa, consapevole che “dividere le scrittrici dagli scrittori” è “come dividere l’umanità in biondi e bruni”. E qui soccorre un’altra, ulteriore citazione di Elsa Morante: “Saba, che per me è il più importante poeta, dice che Marcel Proust è la più grande scrittrice del mondo”. Posto il problema in giusti termini, l’autrice della poesia Alibi (“Solo chi ama conosce. Guai a chi non ama!”) cessa a questo punto di essere un mito: non più astrattamente idealizzata, per un verso, da chi vorrebbe dividerla dalle “madri”, Virginia Woolf o Simone de Beauvoir, inventando la figura di una che “viene dal niente” e, in quanto priva di background, “viene da prima e da dopo la scuola”; ma neppure confinata, per altro verso, in un luogo comune sessista, secondo cui, per esempio, a lei un Pincherle, ossia Moravia, apparirebbe come “uomo della Provvidenza”. Morale: più che mai viva, la donna che si incontra nel libro di Dedola è finalmente la stessa la cui grandezza viene riconosciuta da Lukács nel saggio su ‘Rinascita’ (27 ottobre 1967): L’Ottobre e la letteratura.