Tema. Francesca da Rimini. Svolgo.
Di Federico Sanguineti
A norma delle “parole” contenute in quell’opera di Aristotele che Virgilio nel Poema dantesco (If XI 79 e ss.) considera “Etica” per antonomasia (“la tua Etica…”), è possibile distinguere “le tre disposizion che ’l ciel non vole”, vale a dire “incontenenza”, “malizia” e “matta / bestialità”. Sorprende pertanto che un ipotesto tanto vistosamente esibito come l’Etica a Nicomaco sia eluso dai commentari del V canto dell’Inferno, con la sola eccezione di Daniele Mattalia, il quale si limita peraltro a sottolineare la differenza fra due tipi di incontinenza: quella di chi si abbandona ad essa per debolezza (debilitas) e quella di chi, come Paolo e Francesca, si lascia travolgere dalla passione (praevolatio). Ma non basta: nel VII libro dell’Etica nicomachea si chiarisce che, al pari di simulatori, gli incontinenti sono in grado di ripetere parole espresse in poesia da un filosofo, per esempio Empedocle, “quae erant difficilia ad intelligendum, quia metrice philosophiam scripsit”(che erano difficili da comprendere, trattandosi di filosofia versificata), come chiosa Tommaso d’Aquino; così, al modo di “ebrii et maniaci”, se sono forniti di nozioni elementari (“demonstrationes, puta geometricas”), le replicano come bambini che mettono insieme parole senza afferrarne il senso: “coniungunt sermones quos ore proferunt sed nondum eos sciunt, ita scilicet quod mente intelligant”. Ed è ciò che fa l’incontinente Francesca (“quella del primo banco”, dirà Venditti), vivendo di nozioni orecchiate, più o meno mal digerite, tratte, sembrerebbe, da un’antologia scolastica dove non mancano: 1) Guinizelli, collocato da Dante in Purgatorio XXVI (guarda caso nella cornice dei lussuriosi); 2) Cino, dimenticato nel Poema, essendo fra l’altro Dante autore del compromettente sonetto Io sono stato con Amore insieme; 3) Guido, evocato dal padre di lui, Cavalcante de’ Cavalcanti, fra gli epicurei di Inferno X. Ed ecco dunque, rispettivamente, in anafora, ai versi 100, 103 e 106: Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende (eco di Al cor gentil rempaira sempre amore); Amor, ch’a nullo amato amar perdona, da porre in relazione al verso conclusivo di un sonetto attribuito a Cino: “a nullo amato amar perdona amore” (Pianta selvaggia, a me sommo diletto); Amor condusse noi ad una morte (che presuppone, se non altro, dalla canzone Donna me prega, il verso 35: “Di sua potenza segue spesso morte”). L’amante di Paolo, se parla d’amore, lo fa quindi senza “intelletto d’amore”: la sua voce è “sensuale”, non “rationale signum”; in breve: “sonus est” (Dve I iii 2). Vittima di mal digerite letture, le replica un po’ nozionistica, un po’ ubriaca, un po’ maniaca, un po’ bambina: nasce così, romantica ante litteram per De Sanctis, la “prima donna della nostra letteratura”, la quale, “un giorno” (If V 127), nel trovarsi di fronte ad “Arturi regis ambages pulcerrime” (Dve I x 2), fraintende radicalmente, appunto alla «radice» (If V 124), il “punto” (v. 132) decisivo del romanzo, illudendosi, “per diletto” (v. 127), che sia l’uomo a baciare la donna: “Quando leggemmo il disiato riso / esser basciato […] / la bocca mi basciò tutto tremante” (vv. 133-34 e 136). Ma nel Lancelot, vista la timidezza del cavaliere al cospetto di lei, è viceversa la regina ad afferrare lui per il mento, con un bacio, è il caso di dire, alla francese: “Et la roine voit que li chevaliers n’ose plus faire, si le prent par le menton et le baise devant Galahot assés longuement si que la dame de Malahaut seit qu’ele le baise”. Finalmente: regina una, borghese l’altra.