di Peppe Rinaldi
Che bella storia quella di Peppino Gracceva. E che bello il racconto che ne ha fatto Massimiliano Amato, condirettore di “Critica Sociale” e molto altro, ricostruendo la parabola esistenziale, oltre che integralmente politica quale in effetti fu, di un uomo vissuto nell’ora più buia della Storia.
Ma chi era Giuseppe Gracceva? Innanzitutto era di ascendenza russa – la verticalità del sangue, absit iniuria verbis, spesso conta – perché il papà Dimitri, figlio di una ragazza-madre emigrata dalla terra degli zar, aveva sposato un’italiana di Genzano da cui ebbe una caterva di figli (sette), il primo dei quali fu lui, Giuseppe. Un primogenito coi fiocchi, a giudicare dalla tempra dell’uomo che emerge e sovrasta l’elaborazione politica, pur consistente: non per forza legato a cultura o virtù, il carattere di un uomo è tutto, un brocardo sapienziale ebraico mette in guardia dal rischio che, se maneggiato con poca cura, possa prima essere la condotta e poi il destino di ciascuno. E il destino di Gracceva è la dimostrazione di cosa significhi avercelo un carattere, specie se sul grugno hai gli stivali lucidi della Gestapo che ti interroga per ore, ti colpisce, ti spegne le sigarette sulle braccia, ti lascia senza cibo, senza acqua, ti rende l’ultimo degli scarafaggi, per non dire dell’infinita catena di orrori e miserie di contorno che tutti possiamo immaginare e che solo un cretino può negare.
Il mondo sprofondava nel terrore
Siamo nelle prime decadi del ‘900, il nazi-fascismo fermenta, si radica e accelera non solo tra marce, adunate, simboli, moschetti, fucili e bastonate ma pure tra mille altri epifenomeni man mano che l’annunciato spettro del socialismo reale, aggirantesi per l’Europa già da diversi decenni (cit.), si veniva materializzando in varie forme, nutrendo l’uno del terrore dell’altro in un gioco venefico circolare, quasi ipnotico. Ma queste cose un uomo «con gli attributi» come Peppino Gracceva non poteva saperle né capirle, neppure ci pensava, almeno non ancora: lui sapeva solo che il fascismo prosciugava l’acqua e rarefaceva l’aria dell’Italia, peraltro nel giubilo tipico delle masse di allora (e di sempre), poi lo proverà sulla pelle in una rocambolesca avventura di lotta per la vita, passione politica integrale, ordine e disciplina, sacrificio lungo e quasi meditato, insomma resilienza da manuale si direbbe – orribilmente – oggi, unita a coraggio e determinazione non comuni, in pratica ciò che distingue un uomo da un altro e che nessuna “uguaglianza” potrà mai mitigare.
Quelle di Peppino Gracceva erano le ragioni giuste (l’abominio delle leggi razziali del ‘38, punto vero di non ritorno, rendeva tutto giusto) su questo non ci piove: quale fosse, poi, il mondo cui guardava e che avrebbe voluto qui e ora, prima da comunista e dopo da socialista ma sempre da incallito antifascista, impegnerebbe altre discussioni. Non scenderemo molto nel dettaglio di queste notevoli 252 pagine scritte da un rigoroso Amato che, con metodo storico-critico nella ricerca e con disinvoltura da appassionato competente nella scansione della cronaca di giorni terrificanti come i 271 dell’occupazione tedesca di Roma, insegue la verità delle cose disegnando il cursus della persona grazie alla quale l’Italia ha potuto schierare due calibri extra-large di presidenti della repubblica, Giuseppe Saragat e Sandro Pertini. Grazie al nipote della russa Gratcheva, fattasi poi Gracceva per necessità, i due campioni della Resistenza, peraltro non comunisti, evasero da Regina Coeli dove di lì a poco sarebbero stati passati per le armi: oltre a un Nenni che tanto insistette per far evadere i due futuri inquilini del Quirinale, specie in favore del più tenero Saragat rispetto a un Pertini ormai indurito da una prigionia lunga, sarà proprio grazie a questo «edicolante della libertà» (Gracceva per mantenersi, oltre a contare più o meno sulla birreria di un padre che però doveva sfamare moglie e diversi altri figli, sguazzava nel mondo della distribuzione dei giornali, gestì anche una rivendita, prima era stato in fabbrica, infine si fece commerciante di petrolio quando tutto finì) se la liberazione romana prese una certa piega. Non diciamo altro, non descriviamo oltre, non scendiamo nel dettaglio dei singoli capitoli perché c’è da leggerla tutta la storia del “Maresciallo rosso” così come l’ha raccontata Amato, offrendo non solo l’affresco di un tempo della nostra esistenza il cui orrore non sarà mai raccontato abbastanza, non solo della eccezionalità della vicenda resistenziale romana e laziale, non solo dell’eterna altalena della faida marxista tra massimalisti e riformisti, ma anche un formidabile sottotesto di vita vissuta del tempo: ci penserà il lettore di questo libro edito con il contributo della Fondazione Nenni per Arcadia Edizioni (prefazione di Alberto Benzoni) a lasciarsi travolgere dalla sopportabile piena di dati, documenti, aneddoti e testimonianze recuperati dall’autore dopo aver scoperto una fonte diretta a pochi metri da casa.
Tra San Lorenzo e “il nido di vespe” del Quadraro
Si leggano tutte le pagine senza pensare a quanto disgusto susciti il nazi-fascismo, questo lo sappiamo tutti, o quasi, ma si provi a immaginare il diagramma vitale di quest’uomo nei quartieri romani di San Lorenzo o del Quadraro (il “nido di vespe” che innervosiva molto la Gestapo) capace di osservare, scrutare, raccogliere informazioni e, soprattutto, organizzare la guerriglia tormentando gli occupanti. E’ il contesto di via Rasella, dell’umana schifezza di un Kappler, delle Fosse Ardeatine, dei colpi ignobili alla comunità ebraica più antica del mondo: in queste pagine si percepisce una Roma in bianco e nero dove è facile immaginare case popolari e borghesi pullulanti di vita sommersa e paura di respirare, lunghi corridoi di abitazioni semibuie, l’odore del bucato e quello delle sempre più rare vivande, le urla ciniche della disperazione della borsa nera, la prostituzione di figlie, sorelle e mogli per restare in vita, i canti fascisti sotto il balcone di casa, il rumore degli spari, il sangue dei torturati dopo ore di sevizie, insomma un bianco e nero eloquente dove la banalità adolescenziale di un recente film di successo appare più un capriccio di oggi che un’esigenza vera del passato. Grazie alla palpitazione innescata dalla tecnica narrativa di Amato, continui a immaginarti strade larghe battute e cadenzate dal ritmo anapestico catalettico delle SS alternate a vicoli del centro storico dai quali, in certi momenti, potevi sentire voci melanconiche alzare un canto dopo gli spari o le esplosioni o il rantolo finale di un fascista ucciso qua o di decine di innocenti torturati là. Tutte le guerre sono così se decontestualizzate dal fronte operativo, lo pensava e lo scriveva un gigante della testimonianza letteraria come Vasilij Grossman, ma non tutte hanno un Gracceva che, arrestato per la terza volta e in procinto di abbracciare la morte, quando riuscirà a fuggire dal cappio nazista avrà il fegato di tornare indietro, risalire le scale del mattatoio della caserma in cui il più moderato lavorava con la Banda Koch, per raccogliere carte, documenti e qualsiasi altra cosa servisse. E ci riuscì. Aveva una moglie adeguata al rango della sfida ma con i piedi piantati per terra, quindi attenta alla sopravvivenza prima dei suoi figli e poi di tutto il resto (chiese la grazia per il marito più di una volta, seppur vanamente), aveva una prole che vide quasi mai prima della fine dell’incubo, aveva legami, rapporti, aveva fratelli e genitori ed erano tutti a rischio, Gracceva lo sapeva bene ma era un totus politicus lato combattenti veri come solo certi uomini riescono ad esserlo.
Amarezze e delusioni, il ritorno a Salerno
Pagine coinvolgenti in sé, dunque, perché la storia di Gracceva è una delle più belle anche per la piega che prenderà alla fine della guerra, all’inizio della vita rinascente: conoscerà la fatica e la bugia della “modernità” in avvio, l’amarezza nell’ingratitudine, una certa tiepidezza istituzionale, poi il ritiro a Salerno durato fino alla fine degli anni ‘70 dopo aver avviato un’attività di commercializzazione di prodotti petroliferi, che sarà portata avanti dai figli (Gracceva ed Enrico Mattei si conoscevano bene).
L’alieno di oggi e la guerra alla realtà
Ma leggetela tutta la storia del maresciallo rosso che, secondo Amato, oggi “si sentirebbe un alieno” (testuale): ed ha ragione, la sensazione è la stessa, cui andrebbe aggiunta qualcosa in ossequio allo scopo della ricerca storica, cioè fornire una lente sul passato per assumere il presente. Ebbene, qui ci sarebbe da scrivere un tomo da millemila pagine per dirla (quasi) tutta. Cedendo alla prolissità, si potrebbe riallineare il fraseggio del classico «non esistono più uomini di una certa pasta», gravandolo di congetture, illazioni e opinioni ulteriori. Queste: il mondo di sinistra o progressista, italiano e in genere occidentale, dopo aver reciso ogni legame con la metafisica e poi perfino con la fisica, la biologia e la grammatica – si pensi, tra l’altro, all’indecente overdose di rivendicazioni ad capocchiam, con garrula petulanza, dei cosiddetti “diritti” – ha di fatto dichiarato guerra alla realtà. Gracceva saprebbe forse con chi stare, ad esempio, nella lacerante vicenda mediorientale individuando dove stiano le ragioni della vita e quelle della morte, magari vergognandosi per l’imbarazzante condizione di larga parte del mondo universitario e intellettuale nel rendere l’Europa, di nuovo e non «Mai più», un luogo pericoloso per gli ebrei. Lui, Peppino Gracceva, il principio di realtà non l’avrebbe smarrito, l’aveva imparato da ragazzo. Lui, anima essenziale della fu gloriosa Anpi, forse oggi nemmeno rivolgerebbe lo sguardo a chiunque riesca solo a pensare che la Brigata Ebraica non debba sfilare il 25 Aprile, riconoscerebbe subito chi siano, oggi, in Italia, Francia, Usa, Uk, Germania, Canada, etc, i nuovi nazi-fascisti, quali bandiere sventolino e di quali colori, dicendo cosa e in che tono. Si vergognerebbe, forse, dei “suoi” pensando al fascismo implicito di certe politiche sulla giustizia italiana, di trent’anni e passa di robespierrismo d’accatto, senza dire di leggi e battaglie “culturali” per punire i reati di opinione: c’è qualcosa di più fascista del famoso Dl Zan o di più fascista e disumano del programmare orfani con la «gravidanza solidale» o, ancora, di più nazista del suicidio assistito-eutanasia? Il tutto, spesso, rivendicato quasi con la stessa prossemica degli esistenzialisti a Capri nei film di Totò. Ciò che differenzia gli schieramenti politici oggi è l’idea che si ha di queste materie sensibili, il resto delle scelte (economia, sanità, salario, scuola, lavoro, etc.) si somigliano un po’ tutte e un gran partigiano come Gracceva, chissà, saprebbe cosa fare dinanzi a questo plateale avveramento della profezia di Augusto Del Noce. Gracceva si sentirebbe un alieno anche perché non potrebbe più entusiasmarsi per parole come patria, famiglia o vita, delle quali pure abbonda il libro nelle note e nei documenti storici richiamati da Amato: lo stesso Pertini non potrebbe neppure raccontarlo l’episodio (citato nel libro) di un suo co-partigiano balbuziente che non riusciva a dire una certa cosa nei momenti tesi e drammatici dell’evasione e che l’ex presidente, spazientito, ebbe ad apostrofare brutalmente dicendo “Ma che Pè-pè-pè…qui dobbiamo scappare…”.
Ha scritto il filosofo francese Jean-Claude Michéa: «Se ascolto oggi un uomo di sinistra, lo riconosco dal fatto che non riesce a formulare tre frasi senza usare il verbo discriminare o stigmatizzare, ma ho appena riletto gli otto volumi del Capitale di Marx e non ho trovato queste due parole neanche una volta». Gracceva, forse, non le avrebbe neanche cercate. Sarebbe tornato di nuovo a Salerno. Chissà.