Successo di critica e pubblico per la serata inaugurale di Stories, firmata da Vincenzo Albano, con “Il vecchio e il mare” di Hemingway, in scena sulla terrazza della Torre Vicereale di Cetara
Di Mariangela Stanzione
Sedendo sulla terrazzina semicircolare che, dal fianco della Torre Vicereale, dà sul mare di Cetara svanisce ogni punto di riferimento—le barche, i passanti, persino le luci del golfo all’orizzonte—che restituisca la dimensione della terra ferma, di là dalla balaustra, impostando uno spirito consono al tema della serata. Ormai cielo e mare sono un unico manto buio, le trentadue sedute di quest’intima abside affacciata sull’infinito si sono colmate d’improvviso e Vincenzo Albano si appresta a fare gli onori di casa, presentando emozionato, dopo due anni di pausa, la VI edizione di Frangenti–Cetara arts festival, a cura di Ablativo, già Erre Teatro—quest’anno articolata nella sezione Live per la musica dal vivo e quelle Stories e Kids, dedicate al teatro (quest’ultima per i più piccoli, e Dio sa, se ce n’è uno, quanto bisogno abbiamo di future generazioni avvezze ad una forma d’arte così comunitaria). Martedì, si è svolta, la serata inaugurale della sezione Stories, ma la musica non è mancata. Si è, anzi, rivelata unica sorella e guida di un evento scenico volutamente spogliato dei linguaggi che concorrono all’artificio, col fine di giungere al nucleo pulsante del teatro: la condivisione viva, in un qui ed ora, di un racconto aleggiante fra scena e platea. La voce soffice e la chitarra di Carlo Lomanto (vocalist, compositore, cattedra di Canto jazz al conservatorio Martucci), sulle note di Quizás (“chissà”, del cantautore Osvaldo Farrés), ci hanno adagiato placide come spuma di mare sulla costa cubana dei primi anni Cinquanta, ambientazione de Il vecchio e il mare di Hemingway (Pulitzer 1953; Nobel per la letteratura 1954), proseguendo con brevi intermezzi canori e un elegante tappeto sonoro che ha sostenuto l’intera la traversata. Paolo Cresta (attore e docente di recitazione presso la Bellini Teatro Factory, e di dizione alla Scuola di teatro del Mercadante, a Napoli) è seduto assorto su un trespolo, illuminato da un faro, in attesa del momento opportuno per principiare: vestito di lino bianco, a piedi nudi, le maniche scorciate sugli avambracci, solo vagamente rimandando a esoticità afose non troppo estranee a questo luglio nostrano, assume la neutralità tradizionale del teatro di narrazione, che richiede all’attore di presentarsi senza lo schermo del personaggio, nella sincerità della propria persona, chiamato a raccontare storie senza rappresentarle. Il testo difatti è fedelmente estratto dal romanzo, la cui prosa sintetica ed evocativa ben si presta, con i dovuti tagli, a questa raffinata forma in lettura. Più che rodato, diremmo ormai, affezionato, è uno spettacolo che si può fruire ad occhi chiusi: imboccando la via aperta da Lomanto, la voce profonda di Cresta apre avvolgente, modulata appena nella resa più cristallina del giovane Manolin e quella flemmatica, sommessa, arcaica del vecchio Santiago. Il narratore onnisciente prende pause meravigliose, calibratissime, sapienti. Rapisce con gentilezza, senza farsene avvedere finché, arrendevoli, ormai all’amo, ci si trova inavvertitamente in mare aperto, strattonati da una vocalità che ha assunto la forza del marlin stesso. Nella strenua lotta fra un’umanità rimasta sola con la sua intelligenza contro la magnificenza di una natura rispettata finanche nell’ostilità, il timbro assume una configurazione più archetipica: quella vigorosa, ostinata, fremente, dalla lucidità altalenante dell’eroe moderno. Una gestualità sintetica ma efficace radica la voce nel corpo perché l’ultima ne rilanci la tensione muscolare: la fatica nel trattenere giorno e notte la lenza, il dolore che la natura torna a scavare su cicatrici stratificate, bagnandole di sangue fresco. Il volto si contrae, ringhia, sbuffa, ruggisce, come i leoni africani che Santiago, ora impossibilitato a sognare, deve assumere su di sé come modello, al pari del giocatore di baseball e del ricordo di se stesso giovane e campione di braccio di ferro. È proprio in questi momenti di corpo a corpo fra uomo e marlin (due predatori, due prede, due fratelli rivali) che l’attore sa agganciarsi intimamente agli occhi dello spettatore, proiettarvi contro la performance e trarre linfa vitale dalla sua indivisa attenzione, coinvolgendolo attivamente nello svolgersi dell’evento e, in ultima istanza, nell’interrogazione universale: quanto l’uomo può contro la sorte—una sorte che non è solo a lui esterna, ma natura intima, caducità del suo corpo? Ha facoltà, l’uomo, al tramonto della sua esperienza terrena (dunque tout court: significativo il non riuscir a proferire che un Ave Maria, mai un Padre Nostro, anche in situazioni estreme), di farsi protagonista di esperienze feconde? È solo al tempo passato quanto si ha da dire in vecchiaia? Gli ottantaquattro giorni di pesca infruttuosa, l’esito indegno di un’impresa tanto epica, unica magra (scheletrica!) consolazione una lisca di cinque metri e mezzo ad attestazione dell’accaduto, sembrano qui ammonire “è arrivato il momento di riversare esperienza in chi ha gli potere di portare avanti quanto sei stato”. Nell’approdo mesto, amaro, sfibrato da tre notti insonni, Cresta ha cura di consegnarci a una gioventù che riconosce e riproduce valore, speranza balsamica dopo la sconfitta morale di una umanità navigata, ma che ha ancora qualcosa da dire. Che siano la trasmissione, il ricordo, l’insegnamento l’ultima attiva e prolifica esperienza umana? Quisáz.