Successo per Marco Vecchio e Brunella Caputo coinvolgenti interpreti del mito d’amore protagonisti in Santa Apollonia del secondo appuntamento de’ La Notte dei Barbuti
Di GEMMA CRISCUOLI
Un artista può compiere qualunque impresa, purchè tutto sia sacrificato alla sua arte, anche a carissimo prezzo. Al cantore che osò l’impossibile è stato dedicata “Orfeo – variazioni sul mito”, la performance di Marco Vecchio, su voce narrante di Brunella Caputo e luci e musiche di Virna Prescenzo, allestita presso la Chiesa di Sant’Apollonia nell’ambito de La notte dei Barbuti, sezione del Barbuti Festival. Sospeso tra canto e coreografia e circondato dai simboli più amati (un telo su cui campeggiano animali archetipici; il viaggio di una nave antica e un profilo femminile in un tondo, perché ogni viaggio è circolarità di affetti e affanni), l’Orfeo di Vecchio, che rivive con passione tutte le suggestioni del mondo greco, ha in sé l’innocenza del fanciullo e la seduzione dell’incantatore. La bianchissima testa di donna chiusa in una gabbia adornata da foglie a cui riserva tenera cura è certo rimando alla sposa, Euridice, ma anche correlativo oggettivo della sorte che lo attende: la fine di ciò che si ama è anche la propria. Con gesti evocativi, il protagonista crea un dialogo con la Caputo, narratrice profondamente empatica di una vicenda di desideri e sconfitte. Si volge alla partenza effigiata alle sue spalle, quando avviene l’addio all’amante: per chi non è più, il mondo dei vivi è un terra intangibile quanto l’Ade. Si pone come una statua sul più alto gradino nel momento in cui il dolore dei suoi versi si spande: ogni poeta innalza infatti a se stesso un piedistallo, quando traduce in opera quel che ha vissuto. Chi crea, immola la sofferenza all’eternità: è questo che accade quando Orfeo si volta, perdendo per sempre la moglie. Questa figura è presentata attraverso “Orfeo. Euridice. Hermes” di Rilke e “Il ritorno di Euridice” di Bufalino. La scelta dei testi evidenzia un destino beffardo. In Rilke, la sposa è una mite creatura che, nella pienezza della morte, non ha più memoria del passato e l’opprimente leggerezza della vanità trasfigura ogni cosa. L’Euridice di Bufalino non ha smarrito i suoi ricordi, che le donano una disarmante tenerezza, ma comprende amaramente come il poeta si sia voltato apposta. L’eroismo della catabasi è oscurato dall’egocentrismo di chi vuole il consenso dei posteri: la luce immortale dei versi nasce dal buio senza tempo di chi non ha più diritto a rinascere. Le mani dei due artisti, che si uniscono nella conclusione, vogliono riconciliare la vita e la morte, entrambe sacre e incomprensibili l’una senza l’altra.