Ho riflettuto a lungo prima di dedicare un ricordo al nostro “campo” di calcio, che, in verità, chiamare “campo” ancora oggi appare un azzardo se guardiamo le nostre ginocchia, le nostre spalle, la nostra testa, che di quello spiazzo pietroso conservano tracce in tante scorticature che hanno lasciato più o meno vistosi segni. Eppure, è stato il nostro campo sportivo, il campo dove, come in villetta, si mescolavano palloni e squadre che spesso ti portavano a ridere o ad arrabbiare quando, nella porta avversaria, mandavi un pallone che non apparteneva alla partita che stavi giocando. Leggo della destinazione che si darà al campo, della sua trasformazione in parcheggio, e allora sento che non apparirà inutile aggiungere un ulteriore ricordo a quello di compagni che mi hanno preceduto. Di come fosse il nostro campo sportivo ne è stato già descritto sulle pagine del giornale. Io ho cominciato a viverlo alla fine del 1959, ero entrato intorno alla metà di ottobre, e, se non ricordo male, l’Orfanotrofio concludeva l’esperienza della partecipazione, con una propria squadra, ai campionati dilettantistici. Ricordo del vascone, che chiamavamo piscina, situato sull’altura di destra, rispetto all’entrata, che fiancheggiava il campo; ancora mi vengono i brividi nel pensare all’acqua gelida corrente dentro cui si tuffavano i compagni più temerari. L’altura, invece, che era sulla parte sinistra, aveva spazio perché si potesse stare appollaiati o seduti in modo da poter assistere alle partite anche da spettatori. La squadra in cui tiravo calci nel periodo di frequentazione della scuola d’arte era mista, composta cioè anche da compagni provenienti dalle classi di congegnatori meccanici. Molte sfide ci vedevano contrapposti ai rivali per eccellenza, quelli della scuola di musica. Nella memoria di qualcuno dovrebbero essere ancora conservati i nomi di una difesa non sempre facile da superare: Acconcia, Brancaccio, Capriglione. Belle battaglie erano quelle quando in squadra c’erano due funamboli del calibro di Losito e Immediato, con dall’altra parte Pierino Liguori, un amico che ebbi modo di rincontrare dopo poco trasferitomi a Roma. Alcune volte mi capitava di giocare in porta per mancanza di volontari dediti al suicidio, stante la durezza del terreno, ma ero troppo piccolo di statura e i pali alle spalle erano troppo distanti perché potessi fare il fenomeno. Oggi ci rido, ma allora ci soffrivo quando venivo preso in giro quando non paravo palloni che avrebbero richiesto tuffi diversi da quelli che i temerari facevano nel vascone dell’acqua gelida. Passando alla scuola tipografica la squadra era formata da tutti i compagni di classe, con Felice Moriello in porta, io e Renato Capriglione sempre a difesa: un periodo di belle soddisfazioni. I compagni mi avevano anche dato il compito di tenere un quaderno con la cronaca delle partite che giocavamo tra noi. Avevamo creato un campionato nostro, con 4 squadre i cui componenti si alternavano o si intercambiavano così da dare senso sia al nostro campionato interno che, alla cronaca, da me redatta in modo imparziale e severo, anche verso me stesso. Quando, anni dopo, poco prima di lasciare l’Orfanotrofio, scassinarono il mio armadietto in mia assenza, quel quaderno, come le poche cose care che ancora custodivo, fu rubato o distrutto: sarebbe stata oggi una testimonianza viva di quel tempo. Ricordo, come fosse oggi, di quando il mio corso faceva lezione nella parte dell’edificio antistante il campo sportivo: spesso anticipavamo lezioni con le partite del nostro singolare campionato. Una mattina il prof. Di Lieto, che insegnava teoria e pratica di composizione a mano, arrivò prima del tempo, e fu una tragedia: lui solo in classe mentre noi ad urlare “passa, passa la palla!”, “è gol, è gol!”. Quando il buon Giovanni Menna ci venne ad avvertire non avemmo il coraggio di entrare: sporchi, sudati, non sapevamo che fare. Restammo una buona mezz’ora in silenzio o bisbigliando su come giustificarci, e, rientrando, non ci fu nessuno di noi che ebbe la forza di sollevare lo sguardo verso il professore che ci fece una lavata di testa da non dimenticarcene più. Quando mi accinsi a riportare la cronaca della partita con il finale imprevisto, ebbi però piacere di annotare, lo ricordo ancora, che da allora il professore prese l’abitudine di arrivare sempre prima per entrare anche lui in formazione e giocare con noi, ma, con tutto il rispetto, annotai anche che era assolutamente una schiappa. Tempi, ricordi, tutti stampati ancora nella mente. Da quel campo sportivo, se non giocavo, con i compagni (Moriello, Avossa, Capriglione, alcune volte Peppino Faluri e Vittorio Valva), ci arrampicavamo fino alle pendici del Castello dove facevamo bisboccia oppure fumavamo. Ma il ricordo che porto, e porterò sempre, “stampato” sul viso è legato ad una Pasqua. Avrò avuto 13 anni. A Pasqua, diversamente che a Natale, meno ragazzi andavano a casa, sicché c’era più possibilità per formare due squadre fra ragazzi più grandi. In quell’occasione loro decisero che i più piccoli restassero a guardare o a fare il tifo. Mi assiepai perciò sull’altura di sinistra che faceva da gradinata, ma la voglia di muoversi portò noi esclusi a disinteressarci della partita, finendo, non si sa come, a giocare a pietre. Lì ce n’erano in abbondanza, e, con l’incoscienza dell’età che mi faceva ritenere di essere invincibile, mi portai giù, a bordo del campo, a sfidare quelli sopra a colpirmi. Ne scansai parecchie, fino a che – mi sembra ancora di sentirne il botto – una pietra mi prese in faccia, colpendomi al naso e spaccandomi la parte superiore del labbro, dove da allora una lunga cicatrice sta a farne testimonianza. Il sangue scorreva a fiotti. Dal campo qualcuno provò a tamponarmi con un fazzoletto e mi portò in infermeria, dove don Luigi, non so con quali cognizioni mediche, mi irrorò di alcool puro sulla ferita aperta facendomi urlare come un pazzo, con il labbro che si gonfiava a dismisura. Fui così portato al pronto soccorso dell’ospedale che era verso il Rione Carmine, mentre arrivavano ambulanze con gli incidentati della domenica di Pasqua. Nel frattempo, il bruciore e il gonfiore del labbro erano scemati. Il chirurgo di turno cominciò a suturare la ferita senza usare calmanti o anestesia di sorta, e, meravigliato che non facessi un lamento, al contrario di quelli che su barelle e lettini bestemmiavano e urlavano, si chiedeva perché non avesse quel giorno feriti che sopportassero come me il dolore. Dopodiché, fui riportato all’Orfanotrofio. Giorno per giorno la ferita si rimarginava ma, con la stessa incoscienza che mi aveva portato a fare la battaglia delle pietre, mi tolsi da solo i punti di sutura, e questo credo sia stata anche la causa per la quale la cicatrice appare ancora adesso molto evidenziata. Avrei buoni motivi per rassegnarmi a vedere il nostro campo sportivo trasformato in parcheggio. Se sia un bene o un male forse non dovremo essere noi a dirlo bensì i residenti di Canalone e, soprattutto, quelli che frequentano o frequenteranno il Conservatorio di musica, lontani dai nostri comuni ricordi d’infanzia o adolescenza. A chi non piacerebbe ritrovare i posti in cui si è vissuti così come si erano lasciati! Tanti di voi, più di me, sono stati già testimoni della trasformazione che l’Umberto I ha avuto: camerate, aule, spazi, e tante altre cose non sono più come prima. Potrà dispiacere che un altro pezzo del nostro passato cambierà abito, ma per tutti noi, che lì, sul campo sportivo, nelle camerate, nelle aule, e in tanti altri luoghi interni in cui siamo cresciuti, abbiamo giocato o pianto, il posto più giusto dove conservare la memoria è il nostro cuore. Come la mia cicatrice sul viso, ciascuno porterà dentro di sé un segno incancellabile, una cicatrice che tornerà ad aprirsi, a sanguinare, ad ogni ricordo di un tempo che per noi, solo per noi, avrà un significato. Chi amministra la città dovrebbe considerare questo, dovrebbe tenere conto di quante generazioni di ragazzi si sono avvicendate, formate, negli anni in cui l’Orfanotrofio Umberto I non era più visto come “serraglio” ma come luogo di sviluppo e crescita di tante speranze. Chi sa, proprio per lasciarne memoria, le Autorità potrebbero apporre su qualche parete del nuovo parcheggio da realizzare una targa che ricordi che in quello spazio, dove ora sostano (o sosteranno) le macchine, c’era un campo sportivo che aveva più pietre che terreno per giocare e che pure, tra tante durezze, ha visto migliaia di ragazzi farsi le ossa, sbucciarsi ginocchia, sfasciarsi la testa, pronti però a studiare, ad imparare mestieri che li hanno portati ad affrontare la vita, a creare famiglie a loro mancate, ad attraversare la città a testa alta, orgogliosi di voltare lo sguardo verso il Castello dove alle sue pendici un candido maestoso edificio avrà sempre un angolo che conserverà per sempre il ricordo di ciò che loro oggi sono, o di ciò che essi furono.
Luigi Brancaccio