Di Olga Chieffi
La figura poetica, drammaturgica e d’attore di Enzo Moscato è, nella scena italiana, una tra le più vive e affascinanti ma resta ancora controversa, ribelle e in continua evoluzione; nonostante questo – anzi, forse proprio a causa di questo – resta un autore definito, dalla critica meno aperta e disponibile, con una imbarazzante facilità. Napoli, con le sue facce, ferite e stereotipi, si imprime nello sguardo di chi osserva l’opera di Moscato più che nella sostanza dell’opera stessa e stenta a staccarsene, anche quando – quasi subito, in effetti – si comprende che il suo lavoro porta in sé, in un’unica soluzione, l’antidoto a Napoli e il suo veleno. Di fronte ad un autore che per temi, lingua e provenienza si presta tanto facilmente ad essere tipizzato, è stata forte, negli anni, la tendenza a limitare a pochi termini, perennemente ritornanti, la portata del suo discorso, e costringerlo, nella valle della sua tradizione teatrale, dentro gli stretti argini della Nuova Drammaturgia. Moscato va ben “oltre” e ad un anno dalla scomparsa avvenuta il 13 gennaio scorso, oggi e domani, alle ore 20, il Teatro Pasolini ospiterà “Scannasurice”, il cui personaggio è affidato al sentire teatrale di Imma Villa. Scannasurice segnò, nel 1982, il debutto “ufficiale” di Enzo Moscato come autore e interprete. Scritto dopo il terremoto, ne porta il segno evidente, cogliendo di quel sommovimento l’effetto disgregante piuttosto che quello rigeneratore di energie. Carlo Cerciello sceglie di tornare alla messinscena di un testo in lingua napoletana, attraverso un autore anti-olografico per eccellenza come Moscato, nell’intento di allontanarsi dalla malsana oleografia di ritorno che appesta Napoli di retorica e luoghi comuni. Scannasurice è una sorta di discesa agli “inferi” di un personaggio dalla identità androgina, nell’ipogeo napoletano dove abita, in una stamberga, tra elementi arcani, in compagnia dei topi – metafora dei napoletani stessi – e dei fantasmi delle leggende metropolitane: dalla Bella ‘mbriana al munaciello, tra spazzatura e oggetti simbolo della sua condizione, alla ricerca di un’identità smarrita dentro le macerie della storia e della sua quotidianità terremotata, fisicamente e metafisicamente. Il personaggio fa la vita, “batte”. È, originariamente, un “femminiello” dei Quartieri Spagnoli, ma i femminielli di Enzo Moscato sono creature senza identità, quasi mitologiche, magiche. per questo ne è interprete un’attrice che del personaggio esalta l’ambiguità e l’eccesso. Una volta smontata la sua appariscente identità, indosserà la solitudine e la fatiscenza stessa del tugurio dove vive. Sarà cieca Cassandra, angelo scacciato dal paradiso, sarà maga, sarà icona grottesca e disperata, ma sempre poetica. Le puttane e i femminielli di Moscato, hanno tutte rappresentato un punto fermo e privilegiato nel dare voce e corpo al concetto/prassi di una scena tesa a smascherare, con malinconia ma anche con tanta ilarità, la presunta insufficienza e marginalità di ciò che viene detto il femminile. Soprattutto quello ferito, venduto, comprato, mercificato, ingannato e mistificato da una storia gestita da millenni, in assoluto, dal maschile. Il linguaggio colto ed allusivo, mai volgare malgrado i toni forti. Corpi «frantumati, senza legami, decaduti e martoriati», che si scatenano in canzoni popolari e sceneggiate, esponendo col corpo, anima, sensazioni e sentimenti. La parola rimanda a immagini violente e tristi, ma resta una parola fascinosa e per questo spaccato di umanità disperata era ed è speranza agognata. Oltre l’identità sessuale, sono quasi magiche. Per questo ne è interprete un’attrice che del personaggio esalta l’ambiguità e l’eccesso. Una volta smontata la sua appariscente identità, indosserà la solitudine e la fatiscenza stessa del tugurio dove vive. Di una morte simbolica comunque si tratta, nel segno di un pessimismo che lascia poche vie di fuga.