di Olga Chieffi
All’alba del 2 novembre 1975 veniva trovato, abbandonato nel vasto squallore dell’idroscalo di Ostia, un corpo esanime, “un sacco di stracci”, un uomo martoriato, con le ossa spezzate e il volto tumefatto quasi irriconoscibile. La testa fracassata dalle bastonate, il corpo straziato dalle ruote di un’automobile, un’espressione ferina di dolore a fulminare in un’ultima smorfia la sua faccia scarna. Così finiva di colpo la vita di Pier Paolo Pasolini, con quella stessa violenza barbara con cui, durante la vita, era stato attaccato sul piano giuridico, politico, ideologico e morale. Con quella testa fracassata in un’alba, tra tante altre, veniva stroncata la vita di un uomo solo, in aperto conflitto con un’ Italia nata dal baratro del fascismo e viaggiante precipitosamente verso il baratro, ancora più grande dell’omologazione tecnocratica, del gangsterismo politico, delle morti annunciate. Moriva nel LIII anno dell’era fascista. Così si conclude “Museo Pasolini”, applaudito oratorio civile per voce solista, di Ascanio Celestini, cui abbiamo assistito nel teatro salernitano a lui dedicato, il quale, alla vigilia centenario della sua nascita, il 5 marzo e di quella su Roma del 28 ottobre 1922, ha percorso l’intero secolo breve attraverso la vita e le predizioni de’ il Poeta. Il punto d’osservazione è il contesto nel quale ha vissuto.
Celestini evoca eventi e personaggi dal ventennio fascista, dal 1922 fino al 1975, attraverso gli occhi di Pierpaolo Pasolini. Dal racconto del padre, Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, un cognome della piccola nobiltà del ravennate, che si ritrova a far servizio d’ordine, a Bologna, quando un giovane, Anteo Zamboni, attenta alla vita di Mussolini, finendo linciato, nel 1926 e Pier Paolo era solo un bimbo di quattro anni, al viaggio in autobus con il Poeta “Lui mi parlava di una città che ricomincia dove sembra che la città sia finita”, che è una citazione da Pasolini, da Sesso, consolazione della miseria, mettendo in parallelo, la vita e le opere dell’intellettuale con il contesto geo-storico nel quale lui è vissuto, poiché lì è la chiave per comprendere ciò che sta accadendo oggi. Ascanio Celestini apre la porta del suo Museo, accogliendoci proprio di persona, spettatore per spettatore, guardandoci in volto, da molti affatto riconosciuto, ponendoci di fronte a cinque pezzi fondamentali e rappresentativi, esposti in questo suo immaginario spazio: la prima poesia scritta a sette anni; il paese di origine della madre, Casarsa; l’innocenza del Partito comunista “piegata come una bandiera e chiusa in un cassetto”; la borsa in similpelle contenente una bomba inesplosa e ritrovata il giorno dell’attentato a piazza Fontana e il corpo stesso del poeta, tappe di un percorso sul Novecento, in cui è citato anche il suo cinema da La ricotta a “Il Vangelo secondo Matteo”, titolo quest’ultimo, per spiegare che dalla radicalizzazione dei comunisti e dei cattolici scaturirà la rivoluzione. “Perché se da una parte il mito dei giovani comunisti – dice Celestini – è Che Guevara che fa la rivoluzione a Cuba, nei giovani cattolici il mito è Camillo Torres, il prete che fonda la Teologia della liberazione nel Sudamerica e muore con il mitra in mano, quindi, il Vangelo secondo Matteo è un film militante. Ma perché? Perché Gesù Cristo era un militante”. Ascanio Celestini continua a raccontare. Il suo è un profluvio di parole, poiché segue l’andamento musicale delle frasi, intessendo trame all’interno di una dinamica che è quella delle immagini e del suono. In scena poche cose, una catena di poveri oggetti per terra disposti a cerchio e una porta che cambia colore due o tre volte: attore e spettatore non possono, così, che affidarsi al potere della parola. “Una chiave di lettura di tutti questi anni è l’anticomunismo”, afferma Celestini, un anticomunismo attraverso il quale legge non soltanto il ventennio fascista, ma anche le scelte di questo paese nell’immediato dopoguerra, nel mettere le sinistre fuori dal governo, nel tenere il partito comunista con i milioni di persone che rappresentava da parte fino all’avvento dei socialisti che entrarono con Nenni solo nel 1963, dopo vent’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Su quell’ anticomunismo viscerale, ci fa intuire Celestini, si è fondata tutta la politica delle stragi, dei colpi di Stato, a partire da Piazza Fontana in quel 12 dicembre del 1969, a Piazza della Loggia, il 4 agosto del 1974, mentre il treno Italicus usciva dalla galleria della Direttissima, sulla linea ferroviaria tra Firenze e Bologna e una bomba esplose nel secondo scompartimento della sua quinta carrozza, strage, ancora, l’ultimo piano per organizzare un eventuale colpo di stato in Italia: era il “golpe bianco” di Edgardo Sogno, preceduto dal piano Solo del 1964 e dal golpe Borghese del 1970. Celestini è andato oltre, ci ha lasciato immaginare l’oggi che da quel ventennio deriva. Resta, Pasolini, un capitolo aperto della storia di questo Paese, dilacerante quanto le parole e le immagini con cui il poeta si è scagliato contro la vera morte, quella del silenzio, del taciuto, di ciò che non fa cronaca né storia. Parlarne oggi, significa tentare di riannodare le fila di una lucida disperazione messa a tacere. Il tentativo può sembrare disperato, dal momento in cui quel fascismo omologante e tecnocratico contro cui il “sacco di stracci” dell’idroscalo è andato a infrangersi è lì, immutabile nella sua camaleonticità, fiero di una stravittoria innegabile. Ascanio Celestini ha ri-acceso il racconto e la denuncia, su di un Novecento che non conosciamo e passato troppo velocemente. Ad memoriam.