di Antonio Manzo
Fu un “omicidio fascista”, dice Giorgia Meloni. Giacomo Matteotti fu ucciso da “squadristi fascisti”. E’ nel comunicato del presidente del Consiglio consegnato alla storia politica il giorno della commemorazione dell’omicidio politico del leader socialista rapito il 10 giungo 1924 e ritrovato cadavere il 16 agosto 1924. Nel centenario della scomparsa e omicidio dell’allora deputa Giacomo Matteotti, che Giorgia Meloni, capo del governo di centro destra, consegna alla storia un giudizio politico sull’evento completato autorevolmente dallo storico Emilio Gentile secondo il quale dell’assassinio di Giacomo Matteotti <si conoscono esecutori, mandanti e moventi> fino ad individuare in Benito Mussolini il mandante dell’assassinio del leder socialista . La notizia di cronaca che lancia Giorgia Meloni – “è un omicidio fascista” – lo storico intende completarla con lo stigma della ricerca individuando anche il mandante da accreditato chirurgo delle fonti storiografiche. Il presidente del Senato Ignazio La Russa presente nell’emiciclo di Montecitorio, dove spicca l’assenza di buona parte dei deputati di centro destra, ha la diplomatica, malcelata ma visibile reazione di dissenso al solo nome di Mussolini quale mandante dell’omicidio Matteotti. Lo storico Giampaolo Romanato, in un acuto saggio su “Vita e Pensiero”, mensile dell’Università Cattolica , sostiene che oggi Giacomo Matteotti “è di tutti” ma non sempre è stato così nella prima repubblica quando fu “uomo di pochi” dovendo pagare il prezzo dell’oblio perché lui, riformista e moderato, proprio nel 1924, scrisse che <il comunismo era complice involontario del fascismo>. In lui si riconobbero i socialisti di Pietro Nenni, Giuseppe Saragat fino al coraggioso sdoganamento politico e storico compiuto da Sandro Pertini che da, presidente della Camera, promosse l’edizione dei suoi interventi parlamentari definendo i discorsi del leader socialista assassinato quelli di un “grande Martire”. Fu da quel giorno che Giacomo Matteotti trionfò in un pubblico nazionale più vasto di quello della sua appartenenza politica ed anche celebrato recentemente, con apprezzabile metodo scientifico e divulgativo dal periodico “Critica Sociale” diretto dal giornalista salernitano Massimiliano Amato. Ma proprio nei giorni “liturgici” del ricordo non è stato ricordato il bel libro di Pietro Gobetti “Matteotti” ripubblicato, dieci anni fa, con ristampa anastatica dalle edizioni di Storia e Letteratura con la postfazione di Marco Scavino. Il libro di Gobetti che gli antifascisti, e non solo, ma i salernitani democratici dovrebbero ripubblicare data l’incidenza che il delitto Matteotti ebbe negli anni costitutivi del regime fascista, descrive in sette, densi paragrafi le qualità politiche di <un’intransigente del “sovversivismo”, di un aristocratico del “sovversivismo”, della lotta agraria nel Polesine, del socialista precursore di socialisti, il nemico delle sagre, il suo marxismo, il suo antifascismo, e, infine, il capitolo che descrive il volontario della morte”. E’ un libro bello con ricordi storici ma anche un grande affresco umano del grande Martire della Repubblica che, scrisse Gobetti nel 1924, lo <chiamarono aristocratico pensando di isolarlo, per l’apparente arroganza e solitudine, spiegata nella sua ascetica solitudine>. Lo stupore e lo sdegno che colpì il salernitano che con Napoli fece sentire in Campania la sua forte voce di dissenso con una riunione antifascista convocata da Luigi Cacciatore per organizzare una manifestazione di cordoglio per l’assassinio di Matteotti che finì con una irruzione della polizia. C’era un mondo fascista in difficoltà a Salerno dopo i giorni del delitto Matteotti ma con la forza di riorganizzarsi tanto da indurre lo stesso Piero Gobetti a commentare i risultati elettorali di Salerno stigmatizzando le violenze fasciste subìte dai seguaci dell’onorevole Giovanni Amendola e analizzando il trasformismo di Mussolini <pronto ad accettare tutti i gruppi padroni delle situazioni locali. La funzione di un fascismo coraggioso nel sud sarebbe stata di rifiutare tutte le alleanze, di combattere tutte le posizioni elettorali del giolittismo. Così il metodo Mussolini fu: mazzieri e patto Gentiloni, lo spettro della violenza nell’apparente pacificazione, la pratica quotidiana dei blocchi e delle corruzioni>. L’analisi di Piero Gobetti era fondata anche su elementi conoscitivi di quello che era in una provinca meridionale dove i cattolici Popolari avevano aderito inopinatamente al fascismo per la loro tutela degli interessi di agrari e latifondisti, inseguire i seguaci di Amendola, difendere una tradizione politica uninominalista, con le gestione dei consensi controllata e favorita dalle prefetture locali e dal governo nazionale. Nella provincia meridionale il fascismo riprese il pieno controllo del regime confidando sul clientelismo moderato unificato alla pratica di un fascismo nato all’ombra elle prefetture, degli affarismi localisti e di mazzieri in servizio permanente effettivo. Complice la massoneria salernitana, la tiepidezza se non silenzio compromissorio della Chiesa locale, il silenzio della stampa locale zittita dal regime e che scontò anche la divisione con la creazione locale di due associazioni di giornalisti. Il trasformismo clientelare, praticato dalle classi dirigenti borghesi, in chiave moderata o radicale, fu la strada per l’avventurosa protesta piccolo-borghese e affaristica nelle vite amministrative locali facendo divenire il regime mussoliniano un fatto incredibilmente fisiologico.