Buona la prima della seconda edizione delle “Domeniche ad Arte”che ha ospitato un reading di Carla Avarista dedicata alla figura della Madre, in quel prezioso scrigno che è la Pinacoteca Provinciale
Di Olga Chieffi
La Madre, il giadino e il grembo, il recinto dell’amore, la terra e la fonte della vita. Il concetto fecondità-fertilità-vita-desiderio-del luogo felice, difesa – risiede nel giardino: la sua idea rivela contenuti vitali che esprimono desideri e speranze, maturati nell’eterno spazio femminino. “Mātĕr, matris”, infatti, è stato il titolo scelto per il primo appuntamento della seconda edizione di “Domeniche ad Arte”, il percorso organizzato dalla Provincia di Salerno con il Cta aps e le Acli Provinciali in linea con Concerti d’estate di Villa Guariglia in tour e la partnership della Coldiretti Campagna Amica e della Claai, ospite negli spazi della Pinacoteca Provinciale, alla presenza di Gioita Caiazzo, nel giorno dedicato alla Madre. Carla Avarista ha proposto un reading musicale e teatrale con diverse letture che hanno sviscerato i significanti più pregnanti del termine Madre, nell’ambito di un vero e proprio spazio scenico schizzato dal duo composto da Concetta Pepere al violino e Fiammetta Saggese al pianoforte, unitamente al mimo Antonio Carmando del Teatro La Ribalta di Salerno. La serata è stata inaugurata dal duo con il Salut d’amor op.12 di Edward Elgar, la sua “lettera” di fidanzamento alla sua allieva Alice Roberts che poi sposò, una pagina di una romantica semplicità, che ha introdotto la lettura di “A mia madre” di Erri De Luca, in cui si immortala lo sguardo i sacrifici, la cremazione e lo stupore della sua Emilia, fotografata nel momento preciso in cui l’uno diventa due e si smette per un breve istante di respirare da soli, prima di tornare uno. Quindi, il monologo della Madonna d’ ‘e rrose da Filumena Marturano di Eduardo De Filippo il più bell’inno antiabortista della letteratura italiana da un teatrante ateo e comunista e messo in bocca ad una puttana che provoca Maria. E Maria risponde. “I figli so’ figli”, dice una voce. E Filumena non si volta a cercare da dove provenga la voce perché voleva sentire quella voce. E’ la musica a ricreare il sogno con la settima pagina delle Kinderszenen op.15 di Robert Schumann Traumerei forse il momento più intenso delle Kinderszenen, ove compaiono gioia, malinconia, dolore, poesia, sogno, in questa ispirata reverie. Ed ecco “La Madre” di Grazia Deledda, una pagina ricca di simbologie, la più frequente sicuramente quella del vento, che spira costantemente e sembra rappresentare la forza dell’ineluttabile destino, l’idea pessimistica di inutilità di opposizione alle avversità della vita. Alla Deledda è seguito un testo firmato da Concita De Luca da “26 Come in mare così in terra”, quello schiaffo in pieno volto ad ognuno di noi infertoci dalle 26 salme della nave Cantabria, l’ impegno di ricordare per non cadere nella deprivazione pathica, nell’insensibilità emozionale, nel non inorridire dinanzi al vuoto dell’assenza di sé, con il monologo di una madre che racconta il “viaggio” della figlia, tra aspettative, dubbi e angosce. Il simbolo dell’arte tutta è salvifico, come quello della poesia di Alfonso Gatto “Girotondo per la città”, colla quale siamo saliti sul suo “Vaporetto” a caccia della vita e della libertà. La Méditation dalla Thais di Jules Massenet, quell’oasi di pace in cui amiamo abbandonarci, donata dal duo Pepere-Saggese, prima di ritrovare la parola con Kahlil Gibran, la dichiarazione universale dei diritti della Madre Terra presentata dal Presidente della Bolivia Evo Morales alle Nazioni Unite e il testo di Thìch Nhat Hanh monaco buddhista. Il “giardino” non mente, non perde mai quell’origine antichissima che lo identifica, anche con l’intimo mistero e la prodigiosa fecondità della donna, l’eterna Signora, Grande Madre, generatrice universale che costituisce simbolo vivo da difendere. Ancora un intervento musicale con la Romanza n°2 in Fa Maggiore op.50 di Ludwig Van Beethoven, con la sua aperta cantabilità e quel predominio della distensione espressiva estranea al drammatismo dialettico, ha introdotto il pubblico al set finale di letture, a cominciare da Berenice, città nascosta de’ “Le città invisibili” di Italo Calvino con l’equazione base di quel tòpos, che tutti noi ci portiamo dentro, ovvero una successione nel tempo di città diverse, alternativamente giuste e ingiuste. C’è ancora Erri De Luca con le sue “Dicerie sulla Terra” per sottolineare il rapporto che l’uomo ha con la terra è unico ed è allo stesso tempo davvero vario, poiché è nella diversità che si raggiunge la verità, perchè “La terra siamo noi / fatti di argilla / e di un soffio venuto da lontano / a riempire e poi scappare via”. Parole mimate che vengono da molto lontano queste, perché ispirate dalla Genesi, alla sua origine, che insieme agli altri testi ha scatenato il “play” degli artisti, la “gioia” della performance che ha in sé la radice ghé della terra che è la stessa della conoscenza, gignosko, del “gioco” di dominare il palcoscenico e, quindi, del ritmo, della parola, del gesto, della musica, dell’arte tutta, del convinto plauso del pubblico.