di Gemma Criscuoli
“Chissà se il nostro vivere è un morire e il morire un vivere laggiù” si chiede Socrate nell’Apologia. La Napoli di Enzo Moscato avrebbe la risposta pronta: morte e vita non possono fare a meno di coincidere in una città in cui tutto è inesorabilmente vitale, la carne e il desiderio, il sangue e l’abbandono, l’escremenziale e l’assoluto. Applaudito al Teatro Ghirelli, “Luparella ovvero Foto di bordello con Nana’” è lo spettacolo che il celebre scrittore ha prodotto con Casa del Contemporaneo. Moscato divide la scena con un intenso Giuseppe Affinito, per fare in modo che il racconto delle prostitute di Via Toledo, nell’ultimo squarcio della seconda guerra mondiale, attraversi le generazioni, assumendo un carattere universale. Non esiste infatti epoca in cui il corpo non sia stato degradato a giocattolo da consumare e gettare via per volontà di chi ha preteso di esercitare un qualunque potere. Le meretrici, a cui l’autore guarda con rispetto ed empatia, diventano così, nel loro candore contaminato, le testimoni della bassezza che le circonda. Affinito, che si muove spesso con la languidezza del sogno, antico antidoto al male di vivere, ricorda che i clienti del bordello sono professionisti, mentre i tedeschi sono brutali nelle carneficina come nel dominare i corpi delle “signorine”, che sarebbero ben liete di non vederli neppure da lontano, tanto è profondo l’orrore verso questi veri e propri predatori. L’arrivo dello swing e degli Americani, che tramuta le prostitute in cantanti al braccio dei vincitori, è vernice fresca su situazioni vecchie come il mondo. La vivacità ostentata dalle donne è artefatta, è stordimento mai ripagato da nuova linfa, dato che tutto cambia per non cambiare. Se il copione di oppressi ed oppressori tende quindi a ripetersi, esiste però qualcosa che regala un altrove e s’impone ai sensi con sfrontata energia: è la musica dei ciechi e dei feriti, quella che percorre le vie di Toledo (Viviani è un riferimento forte) e coinvolge nei propri suoni non addomesticabili chiunque possa ascoltarla. È in balia di quella melodia che le donne del casino dimenticano la loro condizione e non è un caso che la padrona della casa di tolleranza, che si compiace di apprendere nuove posizioni sessuali in francese, non la sopporti. La maitresse, difatti, è una categoria del contesto sociale. Le donne al suo servizio, invece, proprio perché usate, avvertono il richiamo di una libertà che solo il suono, a sua volta connubio di ciò che è e di ciò che non è più, può donare. Luparella, prostituta abbandonata da tutti, muore nel dare alla luce un bambino. Nanà l’accoglie amorevolmente, ma non può impedire che un tedesco, piombato da chissà dove, abusi del corpo senza vita della sua amica. Vita e morte si fondono in un connubio straniante, violento, e Nanà ucciderà lo stupratore con le forbici usate durante il parto (inizio e fine si mescolano fino a essere indistinguibili), affidando alle fogne il corpo dell’aggressore: è quello il posto di chi, dimenticando ogni umanità, era già morto senza saperlo, molto più di Luparella. Tra una luna ubriaca a cui parlare (il buio che genera nuovi pensieri, come il ventre devastato di Luparella), rose che ricordano la Madonna di Filomena Marturano, una figura sullo sfondo che rimanda a Totò, per ancorare un contesto preciso a situazioni riconoscibili ovunque e l’omaggio alla vittima col portone mezzo chiuso (è disdicevole farlo per una puttana? E cosa importa?), morte e vita continuano a fondersi, come una musica strana che non si sa smettere di ascoltare.