di Olga Chieffi
“Lumina in tenebris” è poesia sulla poesia prima e dopo Dante. Chiara Muti ed Elena Bucci si pongono alla ricerca dei suoi ritmi nascosti, delle linee chiare, dell’armoniosa struttura che va dallo sprofondo dell’Inferno alla vertigine dell’Empireo, e incontrano ciechi enigmi e le ombre, da cui si lasciano inseguire su di un palcoscenico avaro di luce. Un confronto aspro tra i morti e loro vive, la richiesta testarda di risposte attraverso i versi di Dante, nella musica estrema di un razionale labirinto, ispirate e ispiranti. L’umano come insieme di homo faber e di spirito entrambi costruttivi sta abbandonando l’umano stesso: è il tempo della fine quello che stiamo vivendo. Il compito che si sono assegnate le artiste è cercare voci del passato, che le “inizino” e noi con loro, al divino. Attraverso la voce Dante, e anche attraverso la reciproca contaminazione vocale e di pensiero, la Bucci e la Muti evocano due figure della modernità che si congiungono idealmente alla schiera delle donne celebrate da Dante. Chiara ed Elena elaborano una drammaturgia propria, curandone sia l’interpretazione che la regia, si lasciano guidare unicamente dalla sostanza della poesia, “come luce e suono impalpabile che viaggia veloce, seguendo vie imprevedibili, passa attraverso il tempo e la storia”. Per questa nuova, luminosa tessera nel mosaico di omaggi che il Ravello Festival sta tributando nell’anno celebrativo di Stravinskij, Piazzolla, Caruso, ecco Dante, in scena stasera, sul Belvedere di Villa Rufolo, alle ore 21, in occasione del VII centenario dalla morte, attraverso la cui figura si andrà ad indagare la forza stessa della poesia in toto, che resiste tenace a ogni censura, esilio, dittatura, cecità, rimbalzando tra voci diverse, maestre le une alle altre. Così, dalla Bibbia si passa al viaggio di Enea immaginato dal poeta Virgilio, ma anche a Boezio al quale, durante la cui prigionia, la filosofia fu di conforto. Il viaggio racconta la perdita del Paradiso secondo Milton, raggiunge il lager dove Primo Levi si aggrappò alla memoria del viaggio dell’Ulisse dantesco per fuggire, almeno con la mente, dalla terribile realtà. Si cita la “divina mimesis” di Pasolini a confronto con paure e dubbi del primo canto della Commedia, e poi le domande di Pascal, i versi d’amore di Byron, le visioni ultraterrene di Balzac, la perdita di Euridice narrata da Rilke, fino alle apparizioni dello spirito femminile che crea e rigenera, incarnato da Beatrice. Tutti questi poeti vengono assunti a testimoni di un tempo pieno, poiché, come ricorda Meister Eckart, il tempo è pieno quando viene alla sua fine. Tale pienezza dei tempi permette di stabilire il punto in comune tra questi autori: è l’ “infinito eccesso” del verbo (Par.XIX), da intendere non solo come eccesso della parola creante, ma anche come una sorta di appello imperioso da parte di una zona più smisurata dello spirito a tentare un’esperienza limite quale il dantesco “transumanar”. Ne consegue per il linguaggio dell’uomo, una parola che diventa contenitore di suono, contenitore di una luce che la invade e la pervade, rovesciandola in parola veggente, in “ombra di luce”.