Trionfo personale di Imparato interprete di Michele Murri protagonista di Ditegli sempre di sì di Eduardo De Filippo, andato in scena al teatro Verdi di Salerno nel week end
Di Olga Chieffi
Il teatro di Eduardo De Filippo è un sostrato pubblicamente condiviso da uomini che il teatro lo guardano e lo fanno; è un’idea, un concetto dalla polimorfa definizione che passa lungo i decenni in narrazioni e visioni, dove per lo più trova casa il ricordo commosso. L’opera di Eduardo, nella memoria di chi lo ha vissuto, di chi lo ha contemplato, registrato, di chi lo ha gustato e narrato, si frantuma in teatri diversi, contigui o lontani: teatro di un corpo che si muove, palesando la sua vita interna, articolandosi, “artefacendosi”; teatro sentito, origliato come i piccoli fatti della vita, come concerto di voci, di intonazioni anche sconosciute, che universalmente vengono comprese; il teatro, inoltre, dei suoi copioni e dei suoi testi, è teatro di una drammaturgia perfetta. Il teatro di Eduardo è diventato memoria perché in esso queste visioni si sintetizzano, vengono intessute, si fanno testo. Quel che rimane oggi è l’esperienza teatrale che matura nello scarto tra copione, pre-testo, e testo edito e saggiamente disteso. In questo fine-settimana è andato in scena, “Ditegli sempre di sì”, una delle rare gemme del cartellone del Teatro Verdi di Salerno, che ha salutato il ritorno sul palcoscenico salernitano di Gianfelice Imparato, nei panni del protagonista Michele Murri. “Ditegli sempre di sì”, commedia “dei giorni pari” e, come tale, vicina alla pochade e ai modi del primo teatro di un De Filippo, appena ventisettenne, così legato all’eredità teatrale paterna, è un gioco serio sul tema, abitualmente teatrale, della pazzia reale o presunta, nascosta, accettata o negata dalla società, di un mondo che va alla rovescia. L’opera è un grande esempio di quella capacità di far riflettere ridendo, che tinge anche le opere più spassose di Eduardo di ombre oscure. Il regista Roberto Andò e l’intera compagnia Elledieffe, ne sono consapevoli, e spingono, come sanno, su ambo i pedali: un teatro, il loro, che sa conquistare il suo pubblico, qualunque esso sia, è riuscito ad instaurare una comunicazione, dialogo, attesa, contatto; è riuscito, cioè, a rispettare la sua essenza di luogo di scambio e comunione. Pazzi, fanciulli che non crescono mai o visionari non sono che varianti, nell’antropologia drammatica eduardiana, del primo termine del conflitto fra individuo e società e, a questa genìa di spostati, appartiene, naturalmente, l’attore, uno che prova sulla propria pelle il dramma del passaggio dalla vita al teatro e viceversa. In “Ditegli sempre di sì”, l’attore stravagante è Luigino Strada, ruolo che ha vestito perfettamente il sentire teatrale di Edoardo Sorgente ma, in questa pièce, c’è un pazzo vero, con l’idea della letteralità linguistica: Michele Murri, a cui dà vita, un eccezionale Gianfelice Imparato, il quale rifiuta di fatto il dialogo elaborato dalla società, e s’inventa un “linguaggio privato” che è anche un “anti-linguaggio”. Di qui il leit-motiv verbale – “C’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare?” – in funzione di “formula magica”, grazie alla quale il protagonista può sollevarsi da un’ umanità che imbroglia costantemente se stessa; eppure lo stesso refrain, agendo da detonatore comico, smonta i giochetti di vanità, ipocrisia ed egoismo che si celano dietro l’uso figurato delle “parole” dei cosiddetti “normali”. Ma nel coro dei sani, dei “personaggi immobili” si distinguono le voci altrettanti inquietanti della sorella Teresa, i cui gesti, il cui agire, la cui insicurezza, dovrebbero far capire che qualche rotella manca anche a lei, interpretata da Carolina Rosi e, ancora, Giovanni Altamura il ricco e fascinoso padrone di casa, cui ha dato voce Massimo De Matteo, Vincenzo Gallucci benestante amico della famiglia Murri, affidato a Nicola Di Pinto, attore personale e amenissimo dalla deliziosa vis comica, affiancato dalla moglie Saveria, una convincente Paola Fulciniti, applaudita anche nel ruolo della cameriera Checchina. Contro Luigino Strada, pazzo della società dei normali, si appunta l’ultima tirata di Michele, capace di sovrannaturale buon senso, nella cui serietà maniacale si manifesta in modo grottesco l’opinione degli altri, quella verità che noi conosciamo annebbiata: “Vattènne ‘o manicomio. Tu sei un pericolo per la società. La gente ha paura di te, hai capito?”, concludendo così il viaggio del pazzo fuori del chiuso del manicomio, e il suo approccio prima con la casa, poi con la società, nella casa di campagna dei Gallucci, in cui alla fine del pranzo si intona “M’aggio ‘a cura’”, la macchietta di Pisano e Cioffi che recita “È pazzo ‘o ‘ì!… / È pazzo ‘o ‘ì!… / ‘A gente dice: fuìte, fuì’!…”. Tre le porte del salottino della media borghesia napoletana, costruito da Gianni Carluccio, che somiglia ad un ospedale psichiatrico, un’evocazione, forse de’ “Il Medico dei pazzi”, celebre “scarpettiana”, tre gli accordi degli ottoni che aprono l’ouverture de’ “La forza del destino”, di Verdi, tre le corde simili a quelle dell’orologio di Luigi Pirandello, la corda seria, la corda civile e la corda pazza, che in questa commedia, sembra predominare in tutti i personaggi. La fine della grottesca avventura nel nostro purgatorio quotidiano ribadisce l’ermeticità del confine fra i due mondi: solo con l’eliminazione del pazzo vero (Michele) sarà possibile la sopravvivenza di Luigi, il pazzo finto, nel mondo dei savi. Applausi per l’intera compagnia completata da una perfetta Federica Altamura nei panni di Evelina, figlia di Giovanni Altamura, Andrea Cioffi, voce di Ettore De Stefano, Viola Forestiero, nel personaggio di Olga, fidanzata di Ettore, Vincenzo D’Amato nel doppio ruolo del medico Croce e del fioraio e ancora Gianni Cannavacciuolo (Attilio Gallucci) e Boris De Paola (Nicola, il cameriere).