Il cuntista è tornato a Frangenti – Cetara arts festival, per deliziarci con la seconda parte di questo suo dittico, chiamato, appunto, Horcynus: “Omu a mari. Il cunto delle sirene”.
Di Mariangela Stanzione
Era l’agosto del 2019, terza edizione di Teatri in blu: inusuale sala per un pubblico più che uso ai flutti, una tonnara mollava gli ormeggi cetaresi ospitando sul ponte Gaspare Balsamo (fra i migliori cuntisti siciliani di ultima generazione) e il suo “Epica fera”, spettacolo tratto dal romanzo Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo—storia di un ritorno a casa, da Napoli alla Sicilia, passando per Scill’e Cariddi (lo Stretto di Messina) fra terribili creature marine e peggiori ancora mostruosità terrestri, tutte umane, nel Mezzogiorno del ‘43. 28 luglio 2022: dopo tre anni l’attore torna sui nostri lidi, di nuovo su invito di Albano nel contesto di Frangenti – Cetara arts festival, per deliziarci con la seconda parte di questo suo dittico (chiamato, appunto, Horcynus): “Omu a mari. Il cunto delle sirene”. Per questo cunto costacosta casacasa siamo arroccati sulla terrazzina della Torre Vicereale come su uno scoglio, il privilegiato affaccio sul mare caratteristico della narrazione. Una seggiola azzurra, in incipit, attende l’arrivo di Balsamo, che si lascia introdurre da ‘A sirena, canzone tratta dalla poesia di Salvatore Di Giacomo, a opportunamente sottolineare la fratellanza degli immaginari tirrenici. L’attore attraversa il pubblico e siede poggiandosi alle cosce, con fare attempato; ciabatte da spiaggia, jeans sottili arrotolati alle caviglie, una canotta dal blu un po’ slavato, i riccioli corti arruffati dal vento: ha l’aspetto dal profumo salmastro di Don Mimì, abile raccamatore di reti da pesca e più ancora di leggende di sirene che, colpito da bambino da una paralisi infantile (male che non discrimina, a cu pigghia pigghia), ha trovato nell’immaginazione un modo di vedere il mondo che lo porta più lontano d’ ‘i jammi, delle gambe. Sì, perché (a differenza degli altri che ne hanno solo sentito parlare, o di chi pretende di spiegare l’origine del mito non in una consapevole autorialità umana ma nell’abbaglio derivato dalla vista delle foche, sic!) Don Mimì le sirene le vede davvero mentre, intento a cucire reti in spiaggia, quotidianamente ne descrive di ogni foggia e tipologia ai prepubescenti, alle signore, ai marinai e vecchi pescatori del paese, i quali accorrono ad ascoltarlo ammaliati, tutti desiderosi di farsi divertire e spaventare—e noi con loro. Sovrapponendosi al vecchio, un lucore visionario negli occhi, e come lui levitando sorretto non dalle ginocchia ma dai toni alti e ritmati caratteristici del cunto, Balsamo tesse trame, inanella vicende, incatenando una all’altra le (prime) avventure di un nugolo di picciutteddi sprovveduti, alla scoperta di una sessualità gioiosa e rovinosa, adolescenziale e fatale da cui avrebbero potuto attingere un Pasolini o un Fellini. Illuminato da colori primari dal basso e di lato, viranti l’uno nell’altro in dissolvenza, egli soffia una lievissima brezza nel microfono ad archetto e caso vuole si sollevi un’impercettibile corrente: è tale il potere suggestivo del suo raccontare che, anche nel silenzio assoluto di pochi movimenti au ralenti (nel mimo dei giochi verginali di ragazzi travestiti da marinai e sirene grazie a fluenti grovigli di posidonia), riusciamo a visualizzare pisci barbuti e minne dure e sapurite, evocati con una tale tenerezza da rendere deliziosi gesti presenti a tutti ma banditi dal colloquio perbene. Questo sensuale basso, paesano, dialettale è la scuola della vita per file di generazioni che immancabilmente riconoscono, in queste fameliche donne tramutantesi in fere (i malvagi delfini che divorano la pescata o, mitologicamente, il pescatore stesso, partendo proprio da ciò che lo fa uomo), un fondo di verità sul liminale, sull’incontro cioè con la donna, lo straniero, la maturità sessuale, finanche la malattia. È questa la portata metaforica che lo smargiasso delegato di spiaggia (che pretende di conoscere il mondo attraverso i manuali di biologia) non riesce a cogliere. Nelle sue sterili pretese scientiste non si avvede di svuotare la vita del magico, del meraviglioso, del misterioso nel rapporto con l’altro, pretendendo di spiegarlo e ridurlo al (già) conosciuto, privandolo così del suo fascino, del potenziale generativo, livellando eccitamento e panico sul piano dell’assimilato, dell’indifferente, del familiare. Ignaro esistano tante realtà quante sono le lingue (ciascuna portatrice di una Weltanschauung, una visione del mondo) le sue pompose sfide cadono nel vuoto. Il valore dei miti fondativi è testimoniato dalle parole dell’attore stesso, nel suo libro Sotto il segno del cunto: “in ogni Cunto, nella sua arte, è fortissimo il rapporto tra vecchi e giovani, tra chi racconta e chi ascolta le storie, mentre cresce e si forma alla vita. È un filo mai reciso né sotterrato, esso stesso portatore e testimone del bisogno di sentire storie che riempiano l’intorno di senso e provenienza, come della necessità della magia di qualcuno che le sappia raccontare”. Come Don Mimì, l’attore la sa lunga: e lo dimostra non a parole, ma con la sua capacità di farci vedere attraverso le parole, nessuno escluso: ne sia prova l’anziana signora a me accanto che, smesso il contegno tipico dell’età, alle sue allusioni, genuinamente ridacchiava.