di Andrea Manzi
Cerco in una delle mie librerie un vecchio testo di Alfonso Berardinelli, che sono certo di avere.
Letto circa trent’anni fa, mi è tornato in mente al risveglio che per me avviene tardi, dopo le dieci. Ne ricordo finanche il titolo, “Tra il libro e la vita”, il che è un evento per uno smemorato. Era un testo edito da Bollati Boringhieri, rimasto misteriosamente in galleggiamento tra i miei ricordi forse per la lucidità con cui affrontava situazioni nodali della letteratura contemporanea. Raramente mi spingo in queste affannose ricerche per il caos che impera nel mio vasto campo di lavoro, e infatti anche ora decido di desistere. L’ordine del mio studio è da anni un ricordo, anzi forse non c’è mai stato: volumi ritti sui dorsi, come rastrelliere nervose e ripide, che coprono quelli sepolti sul fondo inaccessibile e buio degli scaffali, scatoloni di edizioni vecchie e nuove giacenti l’uno sull’altro, adagiati in una sonnacchiosa postura. Sono diventati per me titoli morti, quei libri rinchiusi e sigillati per mancanza di spazio nelle librerie. Talvolta ne ho pena, li immagino logorati da un abbandono irrimediabile che è poi rivelatore del mio stile di vita e, quindi, dell’approccio che ho con essi (prendo, sfoglio, sottolineo a sbafo, annoto su fogli che lascio tra le pagine, non sempre leggo fino alla fine e, ben presto, perdo il contatto con quei testi, abbandonandoli alla loro solitudine). Non faccio compagnia ai miei libri, no, proprio no, e la cosa non farà piacere al mio amico Luigi Contu che sulla solitudine dei suoi volumi di famiglia ha scritto un intenso testo. Non li spolvero, non li cerco per anni, non vado a trovarli nonostante, per farlo, dovrei percorrere pochi metri, e dimentico così gioie e inquietudini che mi hanno procurato e i pensieri che mi hanno tirato fuori facendomi crescere in loro compagnia. Pensieri nitidi, quasi rivelazioni. Altre volte passioni e pensieri tristi. Sensazioni, comunque, sempre più o meno riferite all’angoscia del tempo. Oppressivo quasi sempre, redimente più di rado. Posseggo anche libri per così dire privilegiati, parlo di quelli confusi tra agende e corrispondenza inevasa disseminate sulla scrivania, un campo affollato sul quale il computer sembra una torre rettangolare capovolta su un estenuato campo di battaglia dopo un durissimo scontro tra indomite legioni di penne, pennini, ninnoli, calamai, sigarette, sigari, gomme da masticare e gomme per cancellare e tanti spenti appunti indecifrabili.
Tracce confuse
lasciate dai libri
Cercare un libro nell’uragano di volumi & dintorni è un’impresa ardua, di quelle sulle quali, in genere, piomba la mia preventiva rinuncia. Telefono, allora, in libreria. Niente, non c’è. Altra libreria, stessa risposta: il libro non è disponibile, occorrerà richiederlo, ed è già tanto. «È in commercio dal 25 settembre 1990», mi dicono «e in tre giorni le arriverà». Resiste alla grande quel testo, penso fra me, tiene duro nel tempo delle anonime inondazioni editoriali. La riflessione mi tira su il morale. Prenoto, e sarà l’ennesimo libro che avrò in duplice copia. La logica delle mie duplicazioni è così, frenetica, disperata e onerosa. Vorrei capire, però, perché mi ostini tanto nella necessità di avere tra le mani, e al più presto, quel libro. Ho risolto l’angoscia per altre sparizioni mettendo ugualmente mano al portafogli, ma questa volta il riacquisto tempestivo mi appare un atto dovuto. Mi sento avvolto in un senso di mancanza che mi opprime come un lutto inatteso. Eppure, conservo di quel libro un ricordo confuso, e per questo motivo risalire al motivo dell’angoscia mi è più difficile del solito.
Credo che tra quelle pagine, giusto per formulare una prima ipotesi, siano custodite alcune mie sensibilità e riflessioni di trent’anni prima, rivelatrici della possibile modernità della letteratura e, quindi, della critica letteraria e della saggistica che ne sono inseparabili ancelle. Berardinelli mi è tornato in mente, a questo punto ne sono quasi certo, per le analisi che determinarono mie riflessioni giovanili sul testo letterario, la scrittura che “resta” in qualche luogo, cioè su fogli stampati (appunto, nei libri) e non va via come una nuvola fragile sfrattata impetuosamente dal sole. Sì, una scrittura in grado di sottrarsi all’usura quotidiana o alla definitiva consunzione, come quella da me praticata da giovanissimo e per una vita. Parlo della dannatamente friabile scrittura giornalistica, che mi ha dato da vivere e da pensare per più di quaranta anni, alimentando nella mia mente attrazioni e rifiuti, innamoramenti e frustrazioni, orgoglio e castighi.
Le tensioni
innovative
Già da giovane coglievo la rilevante tensione innovativa dei grandi cronisti, autori di prose agili e non convenzionali capaci di accogliere con moderazione neologismi, stranierismi e gergalità. Un accostamento molto ravvicinato alla lingua parlata, sfociato però in una eccessiva trasandatezza stilistica: dall’accumulo di immagini incongrue all’uso di metafore improprie o depistanti spesso frutto della fervida immaginazione del singolo cronista. Rilevavo, già negli anni della mia artigianale formazione in una redazione di provincia, una scarsa sorveglianza formale del linguaggio giornalistico e una eccessiva semplificazione della scrittura. Forse per questa precarietà stilistica mi sono sentito, da sempre, anche e non solo giornalista. Anche, tant’è che ho coltivato altri campi nei quali l’esigenza professionale del consumo narrativo non sfociasse in una paraletteratura. Un pregiudizio? Può darsi, anzi è così. Me ne avvidi quando rielaborai per il teatro il testo Gioventù malata di Ferdinand Bruckner (avevo 27 anni, già giornalista professionista da cinque), riducendolo in un atto unico che riscosse un buon successo nei molti teatri italiani in cui fu proposto. Fu l’ingresso in un mondo dove speravo di trovare una lingua vera, nella quale riscoprire la storia delle idee, gli esiti delle sperimentazioni, la voce dei popoli. In una parola, scorgere la grandezza rassicurante della modernità. Mi affascinò il lavoro del drammaturgo e regista teatrale austriaco perché da esso emergeva una grande musicalità. Bruckner aveva cominciato lo studio della musica e si era dedicato alla poesia, ma poi fu sedotto dal teatro, dalla possibilità di raccontare al pubblico i tremori e le afflizioni di una generazione a cavallo tra le due guerre. Nella scrittura per la scena aveva portato la sua tensione narrativa e, per farlo con incisività, si era lasciato alle spalle l’esperienza della nuova oggettività aderendo all’espressionismo, che fu per lui una autentica rinascita (non per nulla il suo teatro fondato a Berlino si chiamò Renaissance-Theater). Tuttavia, Bruckner non colse nel segno: cercò invano di creare una tragedia moderna, senza mai riuscirvi del tutto. I tentativi esperiti furono soprattutto linguistici: alternò brani di stampo classico con formule più attuali. Un logoramento, anche il suo: alzare il registro o abbassarlo per poter cogliere, colpire, attrarre? L’interrogativo rimase un punto di domanda e si spense nell’ardore di una vita raminga tra le seduzioni della Francia antifascista e l’accogliente approdo nell’America tollerante, dove l’autore di Gioventù malata riuscì a sfuggire alle ricerche della Gestapo.
Lingua selvaggia
e lingua avanzata
Neanche il teatro risolveva il dilemma della qualità della scrittura, e in particolare della presenza urticante dei semicolti, cioè delle tracce di lingua popolare che – tra i limiti formali immediatamente rilevabili – includeva le modalità di parlate quotidiane che creano i rapporti, le coesioni, i respingimenti, in una parola la vita stessa che si manifesta attraverso l’uso del linguaggio e dà spazio e dimensioni a immagini, comunità, sistemi, valori, storia civile. Si spiegano così i giudizi antitetici: “lingua selvaggia” per alcuni studiosi, “lingua avanzata” per quanti, tra i critici, sottolineano la vivacità creativa della letteratura ibridata dal gergo e, in particolare, da regionalismi molti più contigui di quanto non si immagini.Ricordo di essere stato un giovane che sfruttava le parole per vivere e le studiava per crescere, due esigenze vissute come contrapposte, fonte di disagio, smarrimento: era bello e impossibile viversi come l’abitante di un campo sconfinato e, ad un tempo, il prigioniero volontario in un’area recintata. Suscitava suggestioni indefinibili ma inquiete poter dire con libertà e farlo senza valicare le reti protettive della civiltà letteraria, nuotare nel mare della lingua ma evitando annegamenti e naufragi, tenersi nel mezzo, in una dimensione che nega le prigioni ma anche gli scandali. Tentavo di crearmi un territorio di sopravvivenza operosa e speculativa nello stesso tempo. Il teatro e la poesia furono perciò porti di approdo, nei quali però le acque improvvisamente si alzavano insidiando i miei precari ancoraggi.
Berardinelli
e Pasolini
Andando a ritroso, in questa ricostruzione per lembi e per strappi, tra ricordi di esperienze e recupero di vissuti, credo di poter individuare nell’irrequietezza intellettuale dei miei anni giovanili le sensibilità e le riflessioni (e tanti assillanti interrogativi) scaturiti dalla lettura del libro di Berardinelli. Leggevo molta poesia contemporanea, con il timore di scorgere anche tra i versi la pedante retorica verso la quale ho provato sempre repulsione. Troppi troni, patrie, libertà indefinite, amori corrucciati o impossibili, poca strada, pochissima lotta, niente sangue giusto. Mi rinfrancò la scoperta del Pasolini poeta, il dialogo tra fallimento e caduta che i suoi versi certificano e consegnavano ai lettori del presente e del futuro. Scoprii una poesia che spingeva all’azione, lessi versi che finalmente penetravano le contraddizioni civili. Un punto di congiunzione negli strappi avvenuti tra linguaggio giornalistico e lingua letteraria? Può darsi, nella misura in cui i laboratori poetici inaugurati negli anni 80 nella terra di Bobbio dimostravano che lo spazio per una poesia civile esiste, a patto che essa si riferisca a luoghi reali, a utopie interne alla storia, a mondi impregnati di terra e di fango.
Modernità
e post-moderno
“Tra il libro e la vita” finì sotto i miei occhi in quel tempo lontano e mi donò conferme e smentite, sia a proposito della poesia sperimentale che riguardo a Pasolini e alla critica letteraria. Quest’ultima negli anni 60 fu, secondo Berardinelli, la più estrema e forse l’ultima manifestazione di modernità. Poi, arrivò il post-moderno (“la modernità andata a male”) che scombussolava ogni discorso.
La letteratura, tuttavia, va avanti grazie anche alla saggistica e alla ricerca universitaria che liberano il campo di azione da luoghi comuni, arcaismi e irresponsabili fughe in avanti. In quel testo, che rileggerò al più presto, c’era un po’ tutto questo: certezze e cadute, albe e crepuscoli, continuità e rotture, la giovinezza e la voglia di futuro, la conquista e lo scacco.
Il giornalismo, perlomeno quello tradizionale, resta purtroppo molto più indietro: ha perduto gran parte dei suoi lettori, è come un teatro senza spettatori, allestito per la fantasia onnipotente di drammaturghi e registi.Dietro l’angosciata ricerca di un libro nel mio studio caotico, c’è tutto questo, soprattutto il pensiero scettico (del giovane che fui) sulla verità dell’informazione, il più intollerabile degli imperfezionismi contemporanei.
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