di Olga Chieffi
“Fatti e Canzoni” lo spettacolo di Lello Arena ed Enzo Avitabile è la proposta di una filosofia dell’emozione vissuta, di una patosofia come “sapere del senso” volta, contro l’evidente deprivazione emozionale che è riscontrabile negli atteggiamenti psicologici e morali contemporanei; deprivazione patica, insensibilità alla differenza, che ha il suo fondamento nell’illusione della ricerca di un senso della vita nelle cose in-differenti e non piuttosto nell’evento del sentire, nell’emozione vissuta. Evocati, a sipario chiuso, dai ragazzi della Cilea Academy, Esmeraldo Napodano, Carmine Bassolillo, Angelo Pepe e Elisabetta Romano, attraverso quelle parole e quei versi che sono nel vocabolario o nel sentire di tutti noi: “Vincenzo, io mi uccido. Meglio un giorno da leone che cento giorni da pecora”. Con queste parole Lello Arena si rivolge all’amico Massimo Troisi, che gli risponde: “Fai cinquanta giorni da orsacchiotto, almeno stai in mezzo e non fai la figura di merda della pecora e nemmeno il leone, che però vive solo un giorno” o “Chillo n’aveva ragione, San Gennà, chillo pure è nu fastidio a ghì a ritirare i soldi tutt’ ‘e settimane… “Embè, allora?…Una sì e una no!” “Annunciazione, Annunciazione!” con relativo flauto e trombetta o “Don Salvato’ ll’àrberi chiàgnene /’E frutti se so’ ‘nfracetati/Veleno, fummo e cielo grigio/Quanno ‘a mana vosta nunn ‘è arrivata” e ancora “Pe’ mme ‘o dulor’ è normale È comme ‘o vient’ ‘A morte? ‘Na bella jurnata Niusciuno t’avvisa e all’intrasatta chiove”. Empatia tra Lello Arena ed Enzo Avitabile, empatia con chi non c’è più solo fisicamente, ma la presenza si avverte ancora più forte e il segno più incisivo, come quello di Massimo Troisi e Pino Daniele, poiché noi del Sud, abbiamo un rapporto privilegiato con il sotterraneo, con l’aldilà, che umanizziamo. L’unico mezzo di comunicazione tra i vivi e i morti è il sogno: non potendo aspettarsi il sostegno dei vivi, il popolo mediterraneo lo chiede ai morti, e questo eterno dialogo diventa insieme la concreta rappresentazione della memoria e la speranza di sottrarsi miracolosamente all’infelicità. Lo fa Enzo Avitabile in parole e musica, attraverso “Don Salvatò”, a “Mane Mane”, “Tutt’ egual song’ ‘e criature”, “Napoli Nord”, l’incursione nel R&B di James Brown e l’aneddoto, sugli stivaletti con la parola Soul e It’s a man’s world in napulegno. Lello Arena è il depositario del nostro cunto, parole antiche suoni, sciusce d’aria, per dirla con l’Enzo Moscato di “Trianon”, che ci attirano verso ciò che sopravvive e persiste come risorsa culturale e storica capace di resistere, turbare, interrogare e scardinare la presunta unità del presente. Suo il racconto del viaggio di Pulcinella, Pulcinellino e l’asino, che ci ha fatto comprendere come, qualsiasi cosa facciamo, purché consapevoli della scelta che si pone in essere, non deve spaventarci. Sarà comunque sottoposta a critiche. Suo il rito di rinascita un rap napoletano che sappiamo non lontano dal ridire infinito dell’autore del Guarracino che jeva per mare. Esperanto e Africano per Enzo Avitabile, il quale non si è esibito al sax tenore, ma ha imbracciato la pentarpa, una piccola arpa pentatonica a sei corde e il sopranino in Mi Bemolle, che lui chiama saxello, per avvicinarlo alla cennamella – ma si sa che i sax soprano e sopranino, suonati in un certo modo, e con ancia dura, vanno sempre vicini al suono della ciaramella – per andare a sottolineare la contaminazione greca e turca della nostra tradizione. Teatro al buio per Francesco e Sofia, bimbi ciechi che vedono col cuore, per l’esecuzione di “Duorme Stella”, insieme alla chitarra di Gianluigi di Fenza e alle percussioni di Emidio Ausiello, trovatori del terzo millennio, inseguendo destabilizzanti scie sonore di un archivio liquido e meticcio. Il Mare-Nostrum bagna le sponde di tre continenti, di tre grandi culture e le suggestioni di questa musica nascono dal racconto musicale di un’idea meno scontata di identità e di dimora. La sensualità dei suoni, la memoria millenaria che custodisce e le appartenenze poste in gioco ci convincono che l’importante non è tanto avere una casa nel mondo, bensì creare un mondo vivibile in cui sentirsi a casa. La prima grande virtù dell’uomo è la verità (secondo alcuni filologi deriva dalla radice iranica ver che significa fiducia realtà). Se noi riusciamo ad agire in modo da suscitare la fiducia degli altri, e al tempo stesso ad avere fiducia negli altri, forse potremo risollevarci dalla nostra condizione che sta cedendo all’ indifferenza. L’ invito è a rompere il guscio d’isolamento, che non è materiale, ma una volontaria reclusione dell’io. La passione non è la cecità di lasciarsi prendere da un’urgenza, ma patire, cioè vivere profondamente e dare spessore ad ogni piccola emozione, e allora Lellù, Enzù, Massimù, Pinù, nui vi vulimm’ bbene!