Il futuro della lirica italiana passa per il palcoscenico del Teatro Verdi di Salerno. Coraggiosa la scelta della produzione di affidarsi a due cast di debuttanti da seguire e guidare. Un plauso a tutti i maestri, al regista Ermeneziano Lambiase e all’ affettuoso “padrino” Gennaro Cannavacciuolo
Di OLGA CHIEFFI
E’ stata una gran “fatica d’amore” per tutti protagonisti, orchestra, coro, ballerini, scenografi, regista, e su tutti i maestri, i quali da luglio hanno dovuto tenere a bada ben due cast, per questa “Vedova allegra” dei giovani talenti, che ha inaugurato la ripresa autunnale del Teatro Verdi di Salerno. Nell’ultima tornata di letture musicali, a metà settembre, tra un San Matteo e la festa della Marina, la strizza ha cominciato ad attanagliare un po’ tutti, ma alla fine, con un sovrumano sforzo di volontà e un bel bagno di umiltà, si è riusciti a portare in porto un’opera certamente non semplice. Un progetto ambizioso e prezioso, questo che ha unito il Conservatorio Statale “G.Martucci” di Imma Battista, con i solisti, gli strumentisti e il coro, i danzatori del Liceo Musicale e coreutico “Alfano I” di Elisabetta Barone e i creativi artisti del liceo artistico “Sabatini-Menna” di Ester Andreola, che si sono esibiti per quattro matinée per i colleghi delle altre scuole superiori, prima del debutto serale in cui hanno incontrato i melomani salernitani. Le ebollizioni di umori belle époque, fatte di amori, adulteri repressi, finanze di stato in rovina e pettegolezzi, hanno sposato la matrice subdolamente classica della musica di Franz Lehàr. Il regista, Ermeneziano Lambiase ha inteso spingere, giustamente, sul fine perlage che racchiudeva questo pugno di giovani voci, optando per tagli tangibili, anche se il flute (la musica) è rigorosamente di cristallo al piombo pesante, profondamente connesso agli arredi di una cultura anteriore, capace di prefigurare situazioni musicali “serie” ed imprevedibili, in quell’apoteosi del frivolo. Abbiamo assistito alla prima serale, con protagonisti il soprano Maria Cenname, una indovinata Anna Glawari, straripante ricchezza di personalità, riserbo, compostezza e diligente tecnica vocale, unita a doti di grandi intensità, che le hanno permesso di ben confezionare l’aria di “Vilija, o Vilija, ninfa del bosco”. Una voce che ha incontrato un altro interessante talento, il tenore Salvatore Minopoli, il quale ha offerto ugola e corpo al Conte Danilo Danilowitsch,, inseguendo il senso della musica, scoprendo e applicando il modo migliore per farlo, attraverso la libertà tecnica e la cangiante bellezza del suo strumento, in particolare nella sua aria di sortita, nel valzer delle sirene e l’entrata con le urlanti grisettes. Pollice verso inaspettatamente, invece, per il waltz danzato, che ci ha fatto accostare il Minopoli ad un novello Burt Lancaster, vituperato da Luchino Visconti ne’ Il Gattopardo, proprio per quel suo fare goffo da cowboy, che non lo avrebbe mai potuto far assurgere all’essenza di quel “sentimento che si balla”. Felice scoperta è risultato Daniele Falcone, il quale ha vestito i panni dei Camillo De Rossillon, una voce ancora verde in qualche portamento, ma di eccezionali prospettive, che ha dovuto superare, come tutti i personaggi, la scelta di stacchi di tempo eccessivamente lenti del direttore Nicola Samale, il quale ha messo i debuttanti in seria difficoltà. Lettura strana quella dell’esperto Hansalik Samale, che ricordiamo per diversi anni alla testa della banda Città di Ailano e si sa che il repertorio lirico operistico è “portato” tutto più veloce, dalle formazioni di giro. Un plauso anche alla vietrese Francesca Siani, Valencienne, validissima nel ruolo della Baronessa, a fianco di Daniele Falcone. Compito dignitosamente svolto dall’orchestra, con i legni guidati dal docente dell’Alfano I, l’oboista Antonio Rufo, che è riuscito a creare una convincente amalgama, in buca. Non sono mancate le diacronie con i cantanti nei pezzi d’assieme, pur considerando l’enorme difficoltà nel tenere a bada solisti, coro e ballerini. Studiosa scioltezza per il coro e i ballerini con la star, Elena Renna, distintisi in particolare nelle danze pontevedrine del II atto, più che nell’affollato can-can, impreziosito dalla prima donna che si è generosamente concessa al pubblico in un voluttuoso baby doll. Gran compito di mediazione in scena ha svolto l’amatissimo attore napoletano Gennaro Cannavacciuolo, che ha posto a disposizione per intero la sua grande esperienza di palcoscenico, offrendo anche qualche aiuto e ripetizione, fuori orario. Suo il ruolo dell’attento Njegus, giocato con raffinata eleganza, tra i saloni di una Parigi, evocanti quelli del Salone Margherita e del Gambrinus, sicuramente la più affascinate marsina, svolazzante in scena. Per i caratteristi prova ampiamente e sorprendentemente superata, a partire da Giuseppe Toscano (Raul De Saint Brioche), Antonio Palumbo, Teresa Ranieri (Sylviane), Christian D’Aquino (Kromow), Camilla Carol Farias (Olga), Maurizio Bove (Bogdanowitsch), Vittorio Di Pietro (Pritsctsch), Clarissa Piazzolla (Praskovia), guidati dal Barone Zeta, Angelo Nardinocchi. Ovazioni anche per il secondo cast, che ha salutato una lettura dell’operetta, sicuramente più romantica, accorta e posata, adatta al carattere e al gusto vocale del tenore Achille Del Giudice e della sua Hanna Margherita Rispoli, fatto di corretta musicalità e di grande attenzione alla parte anche quando non si trova in registri propriamente comodi. Con loro Ciro Maddaluno (Visconte Cascada), Rosita Rendina (Valencienne), Mariarosaria Catalano (Olga), Gaetano Amore (Camillo De Rossillon), alla ribalta nel secondo cast. Applausi per tutti e attesa per il titolo dei giovani 2020.