Le figure del Ricordo: Concetta Baldassarre e Annu Palakunnathu Mattew - Le Cronache Ultimora
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Le figure del Ricordo: Concetta Baldassarre e Annu Palakunnathu Mattew

Le figure del Ricordo: Concetta Baldassarre e Annu Palakunnathu Mattew

Olga Chieffi

Si è rinnovato anche quest’anno l’appuntamento con Contemporanea, dodicesima edizione della rassegna ospitata dal 3 agosto al 21 settembre 2025 presso le sale di Palazzo ducale Orsini Colonna a Tagliacozzo, nell’ambito della XLI edizione del Festival di Mezza Estate, firmato dal Maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli. Nata nel 2012 da un’idea di Emanuele Moretti, direttore artistico di Contemporanea, col sostegno del Comune di Tagliacozzo guidato dal sindaco Vincenzo Giovagnorio, con l’obiettivo di valorizzare, attraverso l’arte e la cultura, uno dei borghi più belli d’Italia, la manifestazione, ha quest’anno proposto nella splendida cornice del Palazzo ducale Orsini – Colonna, due segni femminili Concetta Baldassarre con la retrospettiva Il ritratto svelato di una vita nell’arte, a cura di Cesare Biasini Selvaggi e Annu Palakunnathu Matthew con la personale dal titolo “Storie Nascoste” . Gli italiani d’Abruzzo e i soldati indiani nella Seconda guerra mondiale, curata con Maria Teresa Capacchione, fruibili fino al 21 settembre. “Contemporanea non è soltanto un programma espositivo, ma un atto di fiducia nel ruolo dell’arte oggi: la capacità di generare domande, di stimolare relazioni e di rendere la città non un luogo che custodisce soltanto il passato, ma che vive pienamente il presente e guarda al futuro”. Così ha dichiarato il direttore artistico di Contemporanea, accompagnandoci insieme al Sindaco dell’incantevole e accogliente borgo, che è in possesso delle “chiavi” fisiche e simboliche, nel suo immersivo sapere di ogni luogo, nella visita delle due esposizioni. Il ricordo farà vivere l’uomo per quanti credono in un Oltre e per quanti lo disconoscono. Le due mostre disvelano, quelle impressioni, che ci giungono da immagini, ricordi di un attuale passato, che profilando una congiuntura, mettendo in gioco e portando in primo piano il dimenticato, nell’accadere del presente, mentre dischiudono vie di fuga verso il futuro. D’altra parte, se non si sarà capaci di ricordare totalmente i segni e i suoni, le immagini permetteranno che “i ricordi divengano questa possibilità meravigliosa” (Godard 1998) Lo stesso Dante Grossi, figlio di Concetta Baldassarre, ha condiviso ricordi, aneddoti e riflessioni che permettono di entrare nel cuore della vicenda umana e artistica della madre, indicandocene attraverso le sessanta opere l’essenza che risiede nella sua capacità di trascendere la mera rappresentazione, esplorando la “vita segreta” delle forme e della materia. Superando i confini tradizionali della tela, l’artista ha integrato nella sua pratica oggetti quotidiani e persino elementi tessili. La sua arte diventa così vocazione, speranza e mezzo per indagare il mistero dell’esistenza, dove la presenza umana è spesso evocata da una struggente assenza. Tre le tappe del percorso della Baldassarre, allieva di Scialoja e di D’Orazio: la prima culmina nell’esperienza della scuola “Zileri”, conclusa con il diploma nel 1950 e un breve incarico di insegnamento, in quegli anni sotto la guida appunto di Scialoja predomina il rigore di Morandi, ma l’artista si apre anche al colore, insieme a certo astrattismo. Quindi il momento della famiglia si torna in Abruzzo poi si ritorna a Roma per resistere e non sotterrare mai il daimon, un filo lega questo periodo in cui si innesta la malattia e le belle tempere si trasforma in frammento in assenza dell’umano che, però, a noi sembra d’intuire, la terza fase comincia nel 1971 e si conclude dieci anni dopo: lì traspare una luce, una tenerezza ferita: ed è per questa pietà sconvolta, cui ha assoggettato la maestria e l‘abilità della sua arte, che la Baldassarre resta una delle massime interpetri del secolo breve, in cui finalmente i pensieri possono prodursi e diffondersi nella pienezza di un segno puro, le similitudini rispondersi, i contrasti risolversi e compiersi il miracolo della chiarezza, sfida unica, quella dell’arte, ad una realtà verace ed irraggiungibile (Paul Valéry). Di fronte per immagini, fotografiche, che legano i luoghi attuali, ai volti di eterogenea e grandissima umanità, la storia dei la storia dei soldati indiani che combatterono a fianco dell’esercito inglese nella Campagna d’Italia, durante la Seconda guerra mondiale. Dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, questa presenza militare si trovò in una condizione difficile da affrontare, per di più in terra straniera. Molti di loro – secondo la ricostruzione realizzata dall’artista e basata sulle testimonianze raccolte – furono tenuti prigionieri nel campo di concentramento di Avezzano. La ricerca condotta da Annu Palakunnathu Matthew rivela questo trascorso significativo e ricorda una delle pagine più alte di solidarietà delle popolazioni locali. A costo della propria stessa incolumità, le famiglie abruzzesi si resero protagoniste di episodi di altruismo, aiutando i militari a fuggire o, in altri casi, fornendo loro protezione. Ecco le “Storie nascoste” di Annu Palakunnathu Mattehew, un incontro che, apparentemente, ha poco di contemporaneo perché riporta alla luce eventi di ottanta anni fa. Eventi che creano un collegamento molto stretto tra due Paesi – Italia e India – che, soprattutto all’epoca, non potevano sembrare più lontani, eppure hanno fatalmente incrociato il destino di tanti italiani e di tantissimi indiani. Ma pochi conoscono la storia dei 2,5 milioni di indiani che hanno combattuto al fianco dei loro colonizzatori, gli inglesi, durante la Seconda Guerra Mondiale, molti dei quali hanno perso la vita o sono stati fatti prigionieri sul fronte italiano mentre, quasi in contemporanea, decine di migliaia di soldati italiani venivano portati dagli inglesi nei campi di prigionia dell’India. Una pratica artistica, quella di Annu, in cui, partendo da foto d’archivio, interroga il passato, soprattutto quello meno noto, per esaminare le narrazioni storiche e gli effetti della colonizzazione. Questi soldati, infatti, hanno combattuto e sono morti in Europa, ma in India i loro sacrifici alla fine della Guerra furono ritenuti imbarazzanti e quindi messi da parte durante la lotta per l’indipendenza dagli inglesi e anche a seguito degli orrori della Partizione, arrivati con la creazione della Repubblica Indiana e di quella Islamica del Pakistan nel 1947. È così che le loro vicissitudini non sono mai state raccontate dai libri di storia, né indiani e neanche da quelli inglesi. Ma l’arte è salvifica anche della memoria e tra video, testimonianze attraverso la testimonianza degli eredi delle famiglie abruzzesi, che con grande coraggio hanno salvato le vite dei prigionieri indiani. Atti di coraggio, senza secondo fine, che legano a doppio filo i borghi della Marsica a Campagna, e alle azioni salvifiche di Giovanni Palatucci Questore di Fiume e del Monsignore Giuseppe, suo zio, i quali negli anni bui della deportazione degli ebrei verso i campi di internamento, tra lo zio vescovo e il nipote commissario si instaurò una singolare intesa di solidarietà volta ad un’affettuosa azione di salvataggio di migliaia di perseguitati, attraverso assistenza morale e religiosa degli internati, unitamente all’intera cittadinanza di Campagna, che trattò fraternamente i prigionieri che vivono nei due campi di concentramento della zona, ove oggi sorge il Museo della Memoria e della Pace e personalmente vedrei un gemellaggio tra i due borghi e la esposizione delle opere dell’artista indiana. Storie raccontate anche attraverso oggetti, come il violino regalato da un soldato indiano al figlio di dieci anni del medico della prigione che, a rischio della propria vita, lo ha aiutato a fuggire. Suo nipote, per la prima volta, ha voluto condividere quel violino che ha attraversato continenti e battaglie e dopo 80 anni ha fatto rivivere la storia di suo padre e di suo nonno. Rivivono gli uomini e le donne, rivive il dottor Boccaletti, che tanti indiani fece fuggire dal campo di Avezzano, Sahibzada Yaqub Khan futuro ministro degli esteri del Pakistan, il tenente Daljit Sing Kalha, rivive Giuseppe Fabbri che svolgeva attività infermieristica presso l’ospedale che si trovava al tempo in via Monte Velino dove erano ricoverati anche due prigionieri di nazionalità indiana un professore universitario e un docente di violino. La fuga fu organizzata da Fabbri e il violinista lasciò il suo violino all’infermiere e a suo figlio Luigi, lo strumento, quanto di maggior valore avesse al mondo oltre la vita. Quel violino chiude l’allestimento della mostra di Tagliacozzo, posizionato nella stordente cappella di Palazzo Colonna-Orsini, tra gli affreschi quattrocenteschi di Lorenzo da Viterbo. La ricostruzione della nostra dignità di Italiani era iniziata dal suono di un violino nei boschi della Marsica.