LA PAROLA  E IL FISCHIO DEGLI UCCELLI - Le Cronache
lettura Salerno

LA PAROLA  E IL FISCHIO DEGLI UCCELLI

 

Rino Mele

Diremo qualcosa della poesia. Così lontana dalle voci quotidiane, consumate dall’uso e che non significano altro che il loro suono. La poesia nasce dall’esperienza preverbale, dall’immemorabile tempo del desiderio del bambino che ancora non parla, l’infante, nel disordine del dolore, la sete, l’ansia di ritrovare un volto, l’incrocio tra suoni preverbali e i fantasmi che li attraversano. Dal rapporto tra quella memoria inconsumata ed estrema sapienza linguistica nasce la poesia che è un attentissimo usare le parole in maniera estrema, come se ancora non ci fossero. Significa non perdere la ricchezza irrecuperabile di ciò che è prima del linguaggio legandolo alla più sottile e profonda conoscenza di esso: come dopo il naufragio che accompagna la fine dell’infanzia, ritrovandoci coi relitti che coprono la lunga spiaggia, con essi pensassimo di riprendere il mare.  Il poeta sa ascoltare i suoni che non ci sono più, l’eco illimitata che abitava il vuoto precedente la parola. Immaginiamo la scena di un film muto, uno di quei meravigliosi racconti per immagini degli Anni Venti (cento anni fa): una donna alza le braccia, apre la bocca, la strazia gridando, nello sguardo c’è una domanda inesprimibile come un sorriso rivolto a se stessa – la vertigine della paura e dell’attesa – poi improvvisamente inizia a correre nella prospettiva deformata di case e finestre, nel loro labirinto verticale. Il bambino ha conosciuto la verità d’immagini come queste, e ha dovuto accettare di essere costretto a dare a quelle terribili emozioni nomi precisi, che ne limitavano la forza, lentamente distruggendole. Guai a sbagliare: ka-sa, boc-ca, bar-ca, brac-cia. La dolcezza delle labbra nel dire “b”, l’asprezza e la minaccia delle “c”, le più incerte “g”. La lingua che parliamo ci è stata, più o meno, affettuosamente imposta. Le parole che usiamo le abbiamo conosciute come indici artificiosi delle cose, parole vuote rispetto ai suoni pieni della comunicazione preverbale, in cui nessuna distanza era misurabile, avvertibile, tra ciò che sentivamo presente e la nostra voce. In questa macerie del diluvio che ognuno, scordandosene, ha attraversato s’inserisce, sempre più prepotentemente, l’inconscio. Lacan (1953) lo definisce così: “L’inconscio è quella parte del discorso concreto in quanto transindividuale”. Ma, torniamo alla poesia, enigmatica come la sfinge: a cosa servono i versi, la loro interruzione e l’improvviso precipitare, la conta delle sillabe, il ritornare dei suoni? Il poeta si crea delle scansioni musicali, finge che sia lì il piacere, svia il lettore nell’attesa di un ritmo e, intanto, la dirompente eruzione della voce fa deserto di sé: le parole bloccate prima che termini il rigo, nel poco bianco della pagina, fermate come su un dirupo. Il fallait bien qu’un visage / réponde à tous les noms du monde: ecco come giudica tutti i nomi del mondo, un poeta: li cancellerebbe tutti, questi nomi, pur di vedere apparire il volto amato, perché sa che li contiene. Il corpo, per Paul Éluard, è un arcipelago, viso, labbra, fronte, quella frammentazione che resiste e ridà unità alla visione: “La fronte ai vetri come chi veglia in pena / oltre l’attesa / oltre me stesso ti chiamo / e non so più tanto t’amo / chi di noi due è l’assente”. Ed è sempre Éluard. Giovanni Pascoli era già un poeta riconosciuto quando, nel 1895, Éluard nasceva: proprio in quegli anni di fine secolo Pascoli scrive queste disilluse parole sulla poesia: “C’è la contraffazione, la sofisticazione, l’imitazione della poesia, e codesta ha tanti nomi. Ci sono persone che fanno il verso agli uccelli, e al fischio sembrano uccelli; e non sono uccelli, sì uccellatori. Ora io non so dire quanta vanità sia la storia di codesti ozi”. Dopo una pausa, si rimette a raccontare, e noi tutti ad ascoltare: “Un poeta emette un dolce canto. Per un secolo, o giù di lì, mille altri lo ripetono fiorettandolo e guastandolo; finché viene a noia. E allora un altro poeta fa risonare un altro bel canto. E per un secolo, o più o meno, mille altri ci fanno su le loro variazioni. Qualche volta il canto iniziale non è né bello né dolce; e allora peggio che mai”. Di seguito, parla delle scuole di poesia: “No: le scuole di poesia sono tutte peggio, e a nessuna bisogna addirsi”. La verità finale: “Non c’è poesia che la poesia”. Ma torniamo a Lacan e al suo scritto del 1953. Parlando del linguaggio da cui siamo totalmente dominati, lui usa due metafore, la prima è quella della rete, ed è il linguaggio che cattura il bambino già prima della nascita (“là dove non è ancora e persino al di là della sua stessa morte”, l’altra immagine è quella del muro. Possiamo tentare una prima risposta a cosa sia la poesia. È rivendicare (il poeta ha una voce che vale per tutti, anche senza saperlo) il diritto alla parola contro l’imperialismo del linguaggio, labirintica rete che non sai eludere, muro che non osi oltrepassare. Proprio come fanno, con i loro esercizi di lallazione, i bambini quando dicono le loro litanie di guerra anaforica. Incerti testardi tentativi di apprendimento ma anche prove rivoluzionarie di poesia. 

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