La Napoli dell’estate 1943, martellata dai bombardamenti alleati e poi insorta, nelle famose Quattro giornate, per cacciare gli occupanti tedeschi, rivive in “Morso di Luna Nuova”, lo spettacolo teatrale a cura del LaB-laboratorio Teatro degli Attori, con Ciro Girardi, Tonino di Folco, Rosaria Vitolo, Adriana Fiorillo, Gigi Vernieri, Aldo Arrigo, Salvatore Paolella, Claudio Collano, Biancarosa Di Ruocco e la regia di Franco Alfano, andato in scena lunedì nel complesso di Santa Sofia, nell’ambito della manifestazione “Resistenze”: un programma di eventi culturali dedicato ai temi concernenti il venticinque aprile e il primo maggio, con il quale si intende delineare un ideale collegamento tra le due festività civili, incentrato sul rapporto tra arte e impegno sociale.
Un gruppo di persone si incontra ripetutamente in un rifugio antiaereo, sotto i bombardamenti alleati, accomunati forse solo dalla paura che cercano di scacciare come possono: pregando, declamando vani proclami roboanti ai quali a poco a poco si finisce col non credere più, immaginando di ottenere futili vantaggi dalla situazione anomala o abbandonandosi a fantasie innocenti.
L’evoluzione del conflitto, l’orrore per le morti e le distruzioni, le speranze illusorie: tutta la storia di quei giorni terribili attraversa quel piccolo spazio. Una scena completamente spoglia, un fondo nero uniforme rende quasi palpabile il buio che avvolge uomini e donne costretti a vivere come topi. A ogni cambio di scena si popola di immagini e suoni scelti da Elena Scardino, che amplificano il senso immane della tragedia rievocato dai racconti dei personaggi. Alla fine anche Roma viene bombardata e il fascismo cade. Sembrerebbero buone notizie: la guerra potrebbe terminare. Quel primo, illusorio entusiasmo lascia però subito il posto allo sgomento: si tratta solo di «altri morti nostri». Gli americani, nel frattempo, sono sbarcati a Salerno e stanno avanzando verso nord, ma indugiano a attaccare Napoli, sperando in un’imminente ritirata dei tedeschi da una città indifendibile, ormai stremata e in preda ai rastrellamenti. L’angosciosa attesa degli otto occupanti del rifugio, ai quali in seguito si aggiungerà un insorto, pronto come loro all’azione, si risolve nella decisione di ribellarsi. Con lo spuntare della luna nuova di settembre torna una flebile luce, che è già un segno di speranza. Cadono le maschere, le ipocrisie, le false sicurezze; si rivelano tuttavia anche virtù inaspettate e nuove prospettive: esiste un’organizzazione che recluta chiunque possa imbracciare un’arma, ma ben presto si unirà a loro un intero popolo, armato di tutto ciò che gli capita a tiro, di quegli oggetti quotidiani resi quanto mai preziosi dalle confische e dalle privazioni della guerra, improvvisamente trasformati in munizioni improprie ma in qualche modo efficaci. Ancora una volta, a complemento dell’azione scenica, scorrono sullo sfondo delle immagini, stavolta tratte dal film “Le Quattro giornate di Napoli” (1962), diretto da Nanni Loy: i combattimenti nelle strade, la liberazione dei prigionieri nello stadio del Vomero (girata al Vestuti di Salerno, con comparse locali), l’attacco ai carri armati con le molotov e la morte eroica del piccolo Gennarino Capuozzo (medaglia d’oro al valor militare). Certo, riproporre la coralità del film, pur muovendosi palesemente su quel solco, sarebbe stato impossibile, e forse persino inutile. Un valido spunto per la riuscita di questa rappresentazione è stato il voler trasmettere il senso del dramma collettivo, intensificandolo attraverso le storie dei personaggi, la loro umanità.
Aristide Fiore