La ludopatia in “Uno, due, tre, quattro e ventisei… che zoza  ‘e strazione!” - Le Cronache
teatro Spettacolo e Cultura

La ludopatia in “Uno, due, tre, quattro e ventisei… che zoza  ‘e strazione!”

La ludopatia in “Uno, due, tre, quattro e ventisei… che zoza  ‘e strazione!”

La Ribalta di Ravello torna domani sera alle ore 18,30 in scena al Teatro di Villa Rufolo con una commedia brillante ispirata a “Non ti pago” di Eduardo De Filippo, diretta dal regista Alfonso Mansi

 Di Olga Chieffi

Per il Gruppo Teatrale La Ribalta è ora di risentire la parola “Sipario!”. Saranno, infatti, i riflettori del Teatro di Villa Rufolo ad accendersi sulla 45(+1)esima stagione del gruppo teatrale più longevo della Costiera Amalfitana. L’appuntamento è per domani sera alle ore 18.30, per la prima di  “Uno, due, tre, quattro e ventisei… che zoza  ‘e strazione!”, una commedia brillante liberamente tratta da “Non Ti pago” di Eduardo De Filippo. “Per il tanto atteso ritorno dal vivo – spiega il regista Alfonso Mansi – ci siamo ispirati alla prima opera rappresentata dal Gruppo nel lontano 1976. Lo abbiamo fatto per segnare un nuovo inizio dopo gli anni più duri segnati dalla pandemia e andremo ancora in scena dal 30 dicembre 2021, per continuare nel giorno di Capodanno 2022, e ancora il 2, 4, 6, 8 gennaio”. Eduardo era solito, quando rappresentava per la prima volta una commedia, tenere di riserva un’altra opera, da mettere subito in cartellone, in caso di insuccesso della prima. La sorte volle che il 20 novembre 1940, al teatro Quattro Fontane, la rivista in due tempi “Basta il succo di limone”, scritta in collaborazione con Armando Curcio, fu sonoramente bocciata dalla censura, per il chiaro invito a “leggere” ciò che era nascosto tra le righe del testo (col limone si fa l’inchiostro “simpatico”, ovvero la critica al regime fascista che aveva appena firmato la dichiarazione di guerra. Il grande maestro non ci pensò su due volte e tirò fuori dal cassetto “Non ti pago”, portandola in scena la sera dell’8 dicembre dello stesso anno. Per uno strano gioco del destino, l’opera, rappresentata per necessità, ebbe uno strepitoso successo. Se don Ferdinando gioca i suoi numeri al Lotto e non vince mai, perché non mettersi alla prova, al teatro, e tentare di centrare la combinazione vincente? Alfonso Mansi dirigerà perfettamente il vendicativo Ferdinando Quagliuolo, gestore di una ricevitoria del Lotto prima portata avanti da suo padre, morto da tempo, che appare in sogno ad altri, magari suggerendo i numeri vincenti in qualche prossima estrazione. Strana casa quella dei Quagliuolo, ove Ferdinando può contare sulla compagnia di un solo amico  che lo aiuta a preparare le conserve e che sa sopportare i suoi umori neri, mentre qua e là volteggia una spiritosa camerierina. Non ti pago ruota attorno a quest’uomo accidioso e dispotico sia nei confronti della moglie Concetta che, quando ci riesce, lo contrasta ma soprattutto lo sopporta, sia con la figlia Stella, ragazza un po’ ribelle, ma costretta ad accettare l’embargo che il padre pone alla sua storia d’amore con il giovane impiegato della sua ricevitoria, Mario Bertolini. Il motivo? Mentre Quagliuolo è un giocatore del Lotto sfortunato all’ennesima potenza, al contrario Mario, che sa interpretare i sogni, vince spesso. Per di più una notte sogna il padre di Ferdinando, che gli dà i numeri per una quaterna che il giovane punta vincendo ben quattro milioni. Persuaso di essersi allevato non una ma ben due serpi in casa e una in ricevitoria, Quagliuolo vuole vendicarsi, si sente vittima di un imbroglio e sostiene che la vincita è sua: suo padre è apparso sì in sogno a Mario, che ora abita nella casa che era stata della famiglia Quagliuolo, ma credendo di parlare con lui, suo figlio. In un susseguirsi di tentativi di impadronirsi del biglietto vincitore, fra avvocati interessati e pronti a passare dall’altra parte e preti inutilmente chiamati a portare pace, litigi continui con moglie e figlia, costretto alla fine a dare al suo dipendente il biglietto che gli aveva sottratto, Ferdinando Quagliuolo, chiamando a testimone il padre morto, si lascerà andare a una serie di maledizioni, che puntualmente si avvereranno e che renderanno impossibile al povero Mario, tra l’altro licenziato in tronco, di riscuotere la vincita, sino al lieto fine con fiori d’arancio. Ferdinando Quagliuolo con i suoi lati estremi, l’ossessione cabalistica dei numeri e l’invidia maniacale per la fortuna altrui, non impersona soltanto un aspetto di Napoli in una determinata fase storica, ma interpreta anche la metafora del perenne inseguimento da parte dell’uomo dei propri fantasmi. Leit-motiv che attraversa le “cantate” con varianti significative di registro, di genere e di soluzione: qui il comico e la commedia e, dunque, il lieto fine; altrove, invece, il quasi-tragico o il tragi-comico, quando il sogno della Fortuna o la ribellione ad essa porterà altri protagonisti a ricadere, più disillusi, sotto il giogo-gioco delle sue inafferrabili leggi.