Olga Chieffi
Platone scriveva “La potenza del bene si è rifugiata nella natura del bello”. Iósif Aleksándrovich Brodsky nel 1987, affermò che “l’estetica è la madre dell’etica” e il motto della sua lectio fece il giro del mondo. Lelio Schiavone ha consacrato la sua vita all’arte tutta, quasi da uomo rinascimentale e ad essa è rimasto fino alla mattinata di ieri ad essa unicamente sottomesso. Generoso, maestro d’amicizia generoso, ha offerto aiuto, suggerimenti, ha sempre segnalato svolte e prospettive, ha illuminato, col proprio esempio, col proprio “fare”, col proprio porsi sempre in gioco, instillato il dubbio, pochi principi chiari, su cui procedere, lavorando indefessamente con severità, verso sempre nuovi traguardi, conquistati in prima persona. La ricompensa è stato l’onore di trasmettere qualcosa, di accendere una scintilla un piacere puro, “gratuito”, quindi, impopolare. Lelio non è più e nel pomeriggio di oggi intorno alle 17 lo saluteremo, sfiorando il cielo di pietra del suo amico ed ispiratore Alfonso Gatto. Quale eredità lascia Lelio Schiavone, a noi e alla città? E’ facile dire che nella galleria di Via de Luca, Il Catalogo è passato per intero il Novecento Italiano, visivo e letterario e che bisogna difendere quanto si è costruito in oltre mezzo secolo, reso evanescente da i fruitori di mostre ed eventi artistici, vernissage e finissage, possibilmente impreziositi da succulenti buffet, che non si accontentano solo di far naufragare il proprio sguardo tra le forme e i colori, ma hanno bisogno di capire cosa si vede attraverso le parole e la descrizione che ne segue, per mezzo del punto di vista di colui il quale dovrebbe comparare e conoscere la storia, di chi riesce a collegare le persone e i percorsi affrontati sia dell’artista che di altri che lo hanno preceduto, da quel pubblico delle mostre che spostandosi in ogni dove, a patto che sia ben divulgato, si pone l’animo in pace, attuando la proskynesis al Totem della Cultura, portando ad attribuire il preventivo assenso a coloro che gli vien detto incarnare tale obelisco. Chi ama l’arte, ama il rischio e la sfida, rompe gli equilibri e brama tentare l’impossibile, per una causa, per un principio, in difesa della verità, per essere d’esempio alle future generazioni. “L’arte è automodificazione. Noi cambieremo in modo meraviglioso se accetteremo le incertezze del cambiamento e questo condizionerà qualsiasi attività di progettazione. Questo è un valore. L’arte, così concepita, è la forma piena della capacità di mettersi in giuoco, e a rischio” scriveva John Cage. Così fu per Lelio Schiavone quel 16 febbraio del 1968, il quale insieme ad Alfonso Gatto inaugurò Il Catalogo con il segno di Corrado Cagli ed uno scritto di intenti estetici che Lelio non ha mai tradito, a firma del poeta salernitano, che ne scelse anche il nome, certamente pensando al Leporello mozartiano. Anima popolare e saggia, quella del servitore di Don Giovanni e divulgatore dell’ arte, non solo visiva, ma spaziante dalla musica al grande teatro, dalla prosa, al cinema , alla poesia, e naturalmente, lo sport, che ha attraversato il secolo breve è stato Lelio Schiavone, il quale aveva gli strumenti e la chiave per entrare in qualsiasi mondo. Esiste un legame stretto tra il pensiero filosofico dell’esistenza e della ragione umane e il sapere del progettare-costruire, entrambe hanno un comune, e fondamentale riferimento, lo spazio. Noi uomini della fine ereditiamo il concetto di spazio come extensio, con esso Cartesio pensava lo spazio quale pienezza e continuità della materia e quindi quale medium del movimento, del tendere avanti a sé, quale sinonimo dell’amplificazione. Si poteva trovare Lelio dinanzi alla porta della sua Galleria, come nello studiolo, ben nascosto, ad attendere, quasi a difesa della sua fortezza Bastiani, per dar battaglia ai Tartari, ai nuovi barbari, ma possiamo immaginarlo in ogni luogo, sacerdote dinamico di un tòpos, il dove, che, localizzando, determina una cosa come cosa-per-l’uomo, che diventa condizione dell’esistenza, punto di riferimento dell’esperienza, che consente la progettualità e l’attuazione, l’esistenza razionale, aprendo al teatro, alla storia, all’ arte, al costume, al finissimo artigianato e, quindi assumendo la caratteristica comunicativa o sociale di “luogo familiare”, mentre la familiarità del luogo ha assunto il tratto di condizione necessaria di ogni progettualità, non solo civile. Ecco che oggi, ancora con Antonio, Francesca e gli Amici del Catalogo, potrà considerarsi così il segno, nel suo divenir parola, suono, che diventa di-segno, archè, principio in quanto da-dove della progettualità, essenziale punto di dipartimento di ogni pensiero che, per essere se stesso deve discernere, giudicare, orientarsi, criticare, continuando, a restituire qualcosa di una drammaturgia segreta, nella quale anno dopo anno, si annoderanno rapporti empatici, nascite, emozioni, che porteranno tutti a fare parte ancora per lungo tempo de’ il Catalogo.





