Ospitiamo Ludovica La Rocca un’architetta, dottoranda in pianificazione e valutazione presso il DiARC – Università Federico II di Napoli e co-founder del collettivo Blam. definisce strategie di rigenerazione urbana dedicati al riuso del Patrimonio Culturale. Dal 2018 ha attivato a Salerno il progetto SSMOLL per il riuso dell’ex chiesa dei Morticelli, l’obiettivo è ripensare allo spazio non più soltanto nella sua connotazione fisica, ma come luogo di relazioni che lo abitano e lo animano, come la stagione Mutaverso, firmata da Vincenzo Albano
Di Ludovica La Rocca
“Cosa sarà?” ai tempi del covid-19, se lo chiedono un po’ tutti. Non da meno, le realtà culturali per le quali i territori rappresentano da sempre il tavolo, gli spazi pubblici il pane, le comunità la linfa vitale delle azioni intraprese con cui plasmare il volto delle città. Cos’è, vale altrettanto la pena domandarsi, cos’è adesso la città. Casa. Recinto. Strada. Aiuola. Panchina. Supermercato. Il ritmo che mediamente oggi tutti riscopriamo nelle nostre città è segnato dal passaggio netto da un perimetro all’altro. Senza filtri né occasioni per perdersi, la strada per il supermercato è segnata: lineare, bordata da un marciapiede, illuminata da un palo, provvista di un parcheggio, affiancata da un’aiuola. Come mai prima d’ora, forse, abbiamo la possibilità di misurare realmente le nostre città. Misurare le distanze che intercorrono tra le nostre case e il resto. Quando è accaduto questo? Quando è successo cioè che le nostre abitazioni sono state così nettamente divise dal resto che “non è nostro”? Esageriamo. Perché abbiamo cominciato a credere che dormire in un letto sia così diverso dal distendersi su di un prato, o che personalizzare il muro della propria camera, non sia un’azione consentita lungo il muro di una città? “Sentirsi a casa” è diventata ormai una consuetudine da esclamare quando ci si ritrova sotto un tetto, eppure un pezzo di cielo non è altro che copertura per una serie di abitazioni, estremamente vicine, in una città. La sensazione è che la città si sia smarrita e abbia dimenticato il principale obiettivo di essere casa per una comunità, proprio quando quest’ultima ha perso la capacità di potersi esprimere al suo interno, divenendone ospite. Dalla piazza alla fabbrica come centro relazionale [Salzano, 2010]; dai luoghi di cerniera ai luoghi di frontiera; dai quartieri alla zonizzazione urbana, sociale, culturale. In questi strappi, lo spazio pubblico è diventato un erogatore di funzioni e divieti, e da produttore di idee il cittadino si è trasformato in consumatore di servizi. Una strada, una chiesa, una piazza, un ex convento, continuano ad essere contenitori posti tra un’abitazione ed un’altra fin quando una comunità non vi riconosce un significato di pubblica utilità, un nome in cui riconoscersi insieme, una dimensione in cui poter tornare ad esprimersi. La sensazione è che la città si sia smarrita quando è venuto a mancare il diritto alla città [Lefebvre, 1967], quando la scienza del costruire città è diventata tale, perdendo la capacità di saper osservare, ascoltare e interpretare la quotidianità. Quando l’organismo urbano si è ridotto a scheletro seccando nelle vene i fluidi creativi della socialità e della relazionalità. Cos’è oggi la città pare importare, al netto dei grandi trattati internazionali, soltanto a quelle comunità culturali auto-organizzate, che provano nuovamente ad esercitare il proprio diritto a viverle e strutturarle in base al proprio quotidiano modo di attraversarle. Sono quelle comunità che si corre ancora il rischio di chiamare piccole, miopi, effimere, scherzi della natura [Manzini, 2011], mentre di fatto si dimostrano profondamente lucide nel prendere coscienza di cosa sia il resto della città, e di quanto questo sia il tutto attraverso il quale esprimersi nella società. Lo spazio pubblico è soprattutto valore relazionale, sociale, culturale e quindi politico. Quando ciò manca, si recintano le aiuole e si blindano le case, finendo per dedicare tutta la sfera personale alle nostre abitazioni e tutta la nostra superficialità all’attraversamento del resto della città, la risultante terra di nessuno. In questi giorni complessi la terra di nessuno ha un peso specifico maggiore, soprattutto per noi che restiamo a digiuno con il nostro tavolo imbandito a metà, con il pane crudo degli spazi pubblici vuoti e in assenza della linfa vitale della comunità ad abitarli. In questi giorni difficili, riflettiamo soprattutto su cosa sono effettivamente quegli spazi pubblici che, dirigendo processi collaborativi, vorremmo rigenerare. Dove e come potrebbero tornare ad essere, o diventare, occasioni di espressione della comunità che li abita? “Cosa sarà?” dunque, ma anche cosa sarebbe stato se l’epidemia fosse scoppiata all’interno delle nostre case? Quanto sarebbe stato pronto il resto della città a farci sentire a casa?