Dal 21 giugno, dopo il primo bombardamento e fino all’otto settembre 43 la città di Salerno discese una china fatta di degrado militare, economico, sociale, politico e morale come poche altre volte accaduto nella sua lunga storia. Nel corso della seconda guerra mondiale il primo bombardamento fu una mazzata inferta dai nemici anglo-americani che oltre a generare vittime e danni materiali provocò la consapevolezza cittadina sull’ineluttabilità della sconfitta militare. Certo oggi a ottanta anni di distanza come cittadini abbiamo memoria di cosa fosse la Salerno allora e quale tessuto sociale la componeva. La Salerno che subì i primi due bombardamenti era una cittadina di medie dimensioni con una superficie abitata limitata alla stazione ferroviaria o poco oltre, un territorio prevalentemente agricolo. La composizione sociale era conseguenziale a sette lunghi anni di guerra del regime che a iniziare dal 1935 aveva assorbito gran parte dei giovani. Era una città abitata in maggioranza da donne, anziani e da bambini adolescenti. I pochi uomini presenti erano invalidi reduci, militari in licenza o convalescenti oppure uomini esentati dai servizi militari per limiti fisici. A questi si aggiungevano tutti i pubblici dipendenti, militarizzati prima dell’entrata in guerra nel 1940, tanto che in giro si vedevano uomini validi solo divisa. La Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, era il corpo militare del partito che doveva sovraintendere alla pubblica incolumità e si avvaleva dell’UNPA (Unione nazionale protezione antiaerea) quale braccio operativo. Appartenevano a questi volontari uomini non giovanissimi, in maggioranza ammogliati e con figli, originari delle area limitrofe in città avevano portato le loro famiglie prendendo in fitto le abitazioni centrali. Gente che per formazione era molto vicina ai dettami di partito e che forti dell’esperienza vissuta nei bombardamenti nelle vicine aree napoletane, contribuì ad alimentare in città il falso concetto di vivere in una località sicura da pericoli da bombardamenti. Una convinzione, tragicamente cancellata dai due bombardamenti operati il 21 giugno 1943. Eventi che come ebbe modo di segnalare il Generale Ferrante Gonzaga, nelle sue lettere alla sorella Maria, avevano come obiettivi, proprio le caserme cittadine del centro città. La caserma dei vigili del fuoco al porto, la caserma dell’esercito via Duomo, quella della Milizia in via Bastioni, la caserma Mussolini in via Sant’Eremita furono obiettivi del raid notturno del 21 giugno. Caserme tutte solo sfiorate dal bombardamento RAF che provocarono ingenti vittime civili a San Giovanniello e Sant’Agostino. Le bombe cadute a San Petrillo mancando la caserma in via duomo sfiorarono la cattedrale andando a devastare il rione prospicente la Salita Delle Croci (oggi via A. Genovesi). Quella notte come sempre nel palazzo vescovile era il monsignor Nicola Monterisi. Fin dal suo insediamento l’arcivescovo aveva tenuto una linea di grande coerenza fondata su una netta distinzione delle attività religiose e pastorale rispetto agli accadimenti politici. Per questo egli contrastò ogni cedimento nei confronti dell’ideologia fascista al potere, tanto che si narrarono di richiami ai suoi sacerdoti se invitati per semplici benedizioni di sedi o gagliardetti del regime, laddove non si fossero tenuti celebrazioni o riti giustificativi della presenza del sacerdote cristiano nelle sedi politiche. Questa linea, sempre fedele ai puri dettami cristiani di servizio al popolo e non accondiscendente al potere si mantenne anche nel periodo bellico. Già il mattino del 22 giugno il prelato dall’alto del giardino del duomo e dalle finestre dell’episcopio, poté assistere a quello che i cittadini desideravano fossero celeri operazioni di soccorso a San Giovanniello, il rione cittadino più colpito. Invece…. I morti sepolti e le persone ancora in vita non poterono essere soccorsi, perché sulle rovine in Largo San Petrillo era restata una bomba inesplosa da 250 libbre. Fu creato un cordone sanitario evacuati tutte le persone, ma prima di portare soccorso si dovettero attendere ore per la rimozione dell’ordigno. Pur senza interferire con le autorità preposte viste le lungaggini di messa in sicurezza, il vescovo chiese almeno il permesso di far avvicinare ai seppelliti qualcuno dei suoi sacerdoti. Portare una parola di conforto, dire una preghiera, amministrare un sacramento: non fu possibile. Neppure l’ultima sua richiesta affinché fosse lui stesso, vecchio e malato a rischiare, portandosi sul posto per confortare i moribondi, fu accolta. Il suo episcopio distava dall’epicentro del bombardamento solo poche decine di metri. Il Vescovo sapeva che in quel palazzo tra i seppelliti era anche Rispoli, un giovane seminarista salernitano. I seppelliti di quella notte furono tirati fuori settimane dopo, quando ormai erano tutti defunti.
Giuseppe MdL Nappo Gruppo scuola
del Consolato Provinciale Maestri del Lavoro SA
(segue)