Successo strepitoso per il direttore slovacco che passa la bacchetta all’israeliano Dan Ettinger sulle note del superbo trombone Jorgen van Rijen. Orchestra partenopea supportata da eccellenze salernitane, quali il konzertmeister Daniela Cammarano, i violinisti Anna Laura Tortora e Vincenzo Grimaldi, il fagottista Mauro Russo, Antonio Rufo al corno inglese e i percussionisti Franco Cardaropoli e Pasquale Bardaro
Di Olga Chieffi
Ogni infima polemica da sportivi seduti si dissolve come avvolta dai fumi del vetriolo tra le righe del pentagramma, come è avvenuto nel concerto di addio del direttore stabile del teatro San Carlo Juraj Valčuha, il quale ha passato la bacchetta all’israeliano Dan Ettinger. Il direttore slovacco che ha assunto l’incarico di Music Director della Houston Symphony Orchestra si è presentato al suo ultimo concerto sinfonico con alla sua sinistra il Konzertmeister Daniela Cammarano, eccellenza del nostro Cilento, unitamente al percussionista Pasquale Bardaro e al fagottista Mauro Russo, mentre al leggìo del corno inglese ha esordito Antonio Rufo e ancora alle percussioni Franco Cardaropoli e tra i violini Vincenzo Grimaldi e Anna Laura Tortora, per una serata particolare, che ha salutato quale mirabile solista Jörgen van Rijen al trombone, per il concerto di James MacMillan. La serata è stata inaugurata da del poema sinfonico Les Océanides op.73 di Jean Sibelius, una rara esplorazione del mondo sottomarino, non marino come Debussy, ottenuta tramite il ricorso ad impasti timbrici coraggiosi ed allo stesso tempo preziosi, come i tremoli degli archi con sordina, legni in assolo e i glissando e gli armonici dell’arpa, in cui Valčuha ha rivelato la semplicità e il magnetismo della sua anima imbevuta di musica. In cattedra è quindi salito il trombonista olandese Jörgen van Rijen, primo trombone della Orchestra del Concertgebow di Amsterdam. Un suono iridescente il suo che con il suo strumento può far tutto al quale James MacMillan ha dedicato il concerto eseguito a Napoli. E’ questa un’opera ispirata dalla morte della nipote del compositore, nel cui Andante centrale è racchiuso lo strazio della inconsolabile perdita. Van Rijen è un nobile ambasciatore del suo strumento, che ancora non è spesso usato come strumento virtuoso tra i compositori. Ma si contano sulla punta delle dita i trombonisti che raggiungono il livello brillante di Van Rijen. Per suono, dinamica, colore, comprensione musicale ed espressività, il trombone olandese non ha eguali e lo ha dimostrato nell’Allegro e nel Presto finale di questo concerto, in cui, in piena empatia con Juraj Valčuha, ha creato un’interpretazione perfetta come il cesello dell’incisore, su ogni timbro, tema e sue infinitesime cellule da cui diparte il discorso, quel canto, pregio di una complessa partitura che ha alla sua base un microcosmo di cusaniana memoria. Van Rijen è stato capace di trasportare l’universale prima del senso, con un suono al di qua di ogni senso singolare, attraverso la ricerca, l’articolazione di un ritmo personale, il voler esprimere una pronuncia tutta personale, che lo rende stilisticamente inconfondibile, al primo attacco, in quel gioco di mutazioni, così come la particolare idea di suono, resta comunque il parametro principale che continua a sollecitare parallelismi con la ricerca linguistica del Novecento eurocolto, in cui tanto valore è attribuito al colore, al timbro, anche nel bis, un intenso blues, eseguito per rispondere al caldo abbraccio del pubblico, in cui, forse, potrebbe aver scoperto il fianco, per la sua continua e sottolineata ricerca della meraviglia, trasformandosi in diavolo e semidio evocante gli adorati virtuosi dell’epoca romantica, gettando sul tavolo tutte le carte possibilità dello strumento, non per ultimi i cluster di suoni, rendendo così lo strumento armonizzante. E’ l’interprete, ma anche l’ascoltatore che è un interprete a suo modo, che deve decidere quale dei tanti significati possibili sia il più giusto, il migliore, il più bello da dare alla Quinta sinfonia di Ludwig van Beethoven, che ha sigillato aureamente la serata, in questo particolare momento. Le ripetizioni di questa sinfonia, sono state al massimo partenopeo, come il roteare di una fionda, da cui si è staccato il fulmineo sasso, il mulinare di una girandola di fuoco, un passo innanzi verso un punto d’arrivo atteso, clamoroso e luminoso. In Beethoven l’orchestra si ingrossa progressivamente, da pochi a tanti strumenti, la scelta di un progressivo scatenarsi dell’energia, mediante una ripetizione con significato progressivo, ha comportato una scelta ben precisa da parte di Valčuha. Difatti, mai i passaggi con pochi strumenti (legni in particolare, ma anche archi, quando rimangono soli come all’inizio dell’Andante, sono apparsi così teneramente carichi di presagi, o di desideri di riflessione, nel bel mezzo dello scatenamento dell’azione. La dinamicità vitalistica, leggera, poi degli ultimi due movimenti ha schizzato per il direttore, un’immagine solare di Beethoven, un Michelangelo pulito dai fumi di candela e dalle muffe, in cui la bacchetta slovacca ha riscoperto il nerbo delle muscolature, il nervosismo dei contrasti di colore, in cui si è andato ben oltre l’abituale dualismo tra Eroe e destino, Bene e Male, schizzando, invece un espressivo e vivido ritratto del compositore.