Continua in crescendo la prima edizione di Salerno Classica, ideata dalle Associazioni Gestione Musica e PianoSolo, un progetto articolato che ha visto le associazioni concorrere e ottenere il finanziamento dal Fondo unico per lo Spettacolo nella sezione Nuove Istanze 2021, con il progetto “Celebrazione, Tradizione, Innovazione”, 15 concerti che coinvolgono oltre il comune di Salerno, che ha sostenuto la kermesse, anche le città di Benevento, Amalfi e Brienza. Il terzo appuntamento di Salerno Classica, è stato fissato per questa sera, nella chiesa di San Benedetto, alle ore 20,30 (Ingresso tra i 7 e gli 8 euro, a seconda delle riduzioni), e saluterà il taglio del nastro della XIII edizione del Festival Internazionale PianoSolo, ideato e firmato da Paolo Francese. Il direttore artistico ha scelto quale titolo della prima serata “Incontri di Stili”, affidandola al sentire musicale della pianista Moira Michelini, che si cimenterà con il concerto per pianoforte e orchestra di Johann Sebastian Bach Concerto in Re minore, BVW 1052 e Marco Vergini, che suonerà al posto della Anna D’Errico, purtroppo, in quarantena preventiva impostale per essere stata a contatto con un presunto caso di covid, il quale eseguirà il concerto per pianoforte e orchestra n. 2 op. 19 in Si bemolle maggiore di Ludwig van Beethoven nella trascrizione per ensemble d’archi. Infatti, entrambi i concerti vedranno la partecipazione dell’Ensemble Lirico Italiano, in quintetto, con Annalaura Tortora e Ilario Ruopolo al violino, Mattia Cucillato alla viola, Francesco D’Arcangelo al cello e Luigi Lamberti al contrabbasso. Degli otto concerti superstiti pervenuti fino a noi, il primo Concerto in Re minore BWV 1052, certamente il più compiuto ed eseguito, è utilizzato per i primi due tempi nella Cantata Wir müssen durch viel Trübsal BWV 146, e per il terzo tempo nella Cantata Ich habe meine Zuversicht BWV 188, e sembra provenire dal Concerto per violino BWV 1052a: la versione originale potrebbe essere per viola d’amore, o addirittura per viola da gamba o viola di bordone. A quanto è dato sapere, la fonte più antica del concerto risale al 1734 e il fatto che essa comprenda le parti dell’orchestra di mano di Carl Philipp Emanuel induce a supporre che essa fu approntata per un’esecuzione con lo stesso Carl Philipp Emanuel come solista alla tastiera (questa versione è nota con il numero di catalogo BWV 1052a). L’intero concerto è costruito intorno a un registro espressivo severo, scuro e introspettivo reso tanto più evidente dalle tonalità minori; al re minore d’impianto dei movimenti mossi corrisponde infatti il sol minore del tempo lento centrale. L’eco di Vivaldi, dal quale Bach iniziò ad assimilare negli anni di Weimar il concerto italiano attraverso le trascrizioni per tastiera soprattutto dall’Estro armonico, risuona nella vigoria ritmica dei ritornelli dei movimenti mossi. E tuttavia, com’è tipico di Bach, il modello strutturale vivaldiano è ripensato così da sfumare il più possibile o addirittura cancellare la distinzione funzionale tra ritornelli orchestrali tematici da un lato ed episodi solistici figurali dall’altro in virtù di una fitta integrazione e coesione tra le diverse sezioni e di una continua trama contrappuntistica. Inoltre, i movimenti mossi sono improntati a una grande forma ternaria col da capo in cui la parte centrale è sviluppata così da valorizzare l’estro virtuosistico e una condotta imprevedibile nel gioco concertante tra solista e orchestra. Il movimento lento si basa su un basso ostinato, trattato liberamente, sul quale lo strumento a tastiera dipana una linea melodica florida e riccamente ornamentata, articolata in quattro episodi. Risale al 1794 la stesura del Concerto in si bemolle maggiore di L.van Beethoven. Il compositore aveva ventiquattro anni, ma da tempo stava lavorando in profondità sulle risorse espressive del pianoforte; fu lui il primo compositore ad archiviare definitivamente in cantina clavicembali, clavicordi e spinette. Fin da giovanissimo aveva manifestato una grande attenzione per le tecniche costruttive, che proprio in quegli anni stavano contribuendo ad aumentare la sonorità e la versatilità dello strumento. «Si può far cantare il pianoforte», scrisse proprio intorno al 1794, alludendo a una ricerca timbrica che si può toccare con mano in ogni pagina delle sue prime sonate per pianoforte. Non a caso questo concerto, dopo essere stato eseguito per la prima volta il 29 marzo del 1795 al Burgtheater di Vienna con Beethoven al pianoforte, fu rimaneggiato fino al 1801. L’esposizione del Concerto in si bemolle rivela la stessa esigenza di rinnovamento formale, che si legge anche nelle coeve sonate op. 10. Nel momento in cui ci si aspetterebbe l’apparizione del secondo soggetto, l’orchestra improvvisamente modula verso un ambito totalmente inaspettato, iniziando ad elaborare alcuni spunti del primo tema; proprio come se la forma fosse già approdata alla sezione dedicata allo sviluppo. L’intervento del pianoforte è altrettanto ricco di ambiguità: a presentarsi è un nuovo tema, mai citato nel corso dell’introduzione orchestrale. L’idea era già stata sperimentata da Mozart nel Concerto in re minore KV 466, lavoro che lascia alcune tracce anche nel dialogo tra solista e insieme orchestrale. Mentre nessuna eco settecentesca prende forma nella cadenza solistica, scritta dallo stesso Beethoven nel 1809, quasi quindici anni dopo la prima stesura del Concerto. La voglia di far cantare il pianoforte emerge nel secondo movimento, dove si fa largo un tema lineare e rassicurante come una parola materna; ma al centro della scena non c’è solo il pianoforte, perché l’orchestra assume un ruolo dialogante, capace di dare spessore emotivo alle riflessioni del solista: nell’apparizione del flauto che chiude il movimento si avvertono già i toni bucolici della Sinfonia Pastorale. La prima versione del Concerto in si bemolle terminava con un Rondò dal sapore spiccatamente mozartiano, che Beethoven decise di sostituire in un secondo momento (il brano apparve come pezzo sciolto nel 1825 in una versione rimaneggiata da Carl Czerny). Il movimento che venne pubblicato nel 1801 si allinea meglio alla fisionomia degli altri finali beethoveniani: un tema tutto ironia si combina con una serie di episodi estremamente variegati che non disdegnano alcune inflessioni zingaresche.
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