Wagner, Rachmaninov e Verdi per il concerto del Sabato Santo, con la grande orchestra di Tirana ancora una volta agli ordini di Jacopo Sipari di Pescasseroli, che ospita gli studenti del Conservatorio “G.Martucci” di Salerno. Il programma rivela per intero l’estetica raffinata, intimista ed emozionale del direttore
Di Olga Chieffi
Ritornano ad esibirsi stasera sul palcoscenico dell’Opera di Tirana, i ragazzi del Conservatorio Statale “G.Martucci” di Salerno, i violinisti Domenico Giannattasio, Giuseppe Vitolo e Franziska Rosemann, la cellista Fabiola De Angioletti, il cornista Fabrizio Cirillo, il percussionista Carmine Ciccarone, il flautista Mario Montani e l’oboista Pietro Avallone, ospiti dell’Orchestra dei Teatri Kombetar i Operas, Baletit dhe Ansamblit Popullor, con le masse corali preparate dai maestri Dritan Lumshi e per le voci bianche Hajrullah Syla, il coro dei Filarmonici del Kosovo, la formazione sinfonica delle Forze Armate, in un concerto dal programma di un’estetica raffinata, intimista ed emozionale. Il direttore Jacopo Sipari di Pescasseroli che tornerà sul podio di questa formazione, ha inteso in questo Sabato Santo, un giorno d’attesa, innalzare lo sguardo al cielo, dopo le tenebre del Venerdì Santo. In apertura di programma, il Preludio del Lohengrin di Richard Wagner. E’ trasparente il messaggio: ogni anima possiede il suo mistero e, in particolare, le anime elette, la cui parte di irrealtà, questa pagina così ben evidenzia, con il suo movimento oscillante e il suo timbro di luminosa evocazione. E’ questo un punto fondamentale della concezione wagneriana, un carattere del sacro che egli vede in ogni uomo, di qualunque tendenza morale, e che nel Lohengrin acquista un sigillo distintivo: il vero significato del Leitmotiv, che afferma la sostanza animistica di ogni personaggio. La luce del Graal, emanante ma statica, trattenuta come in galleggiamento, sottrae l’essere alle meschinità della storia, quando esse diventano un obbligo troppo pesante per la difesa dell’interiorità. Seguirà la scena dell’Incantesimo del Venerdì Santo dal Parsifal. Il “puro folle” si volge ad osservare la foresta e il prato ed esprime la sua ammirazione per la purezza e la bellezza di cui sono piene le erbe e i fiori e si sente legato ad essi da un’intima comunione. “È l’incantesimo del Venerdì Santo” – gli dice Gurnemanz – e continua rivelandogli la gioia della natura, purificata e rigenerata dal sacrificio del Redentore. Ne fummo personalmente partecipi al concerto inaugurale della LXX edizione del Ravello Festival: il palco montato a getto sul mare sul belvedere di Villa Rufolo era spazzato dal vento, quasi impossibile suonare. L’orchestra del Teatro San Carlo agli ordini di un wagneriano severo e convinto quale è Juraj Valčuha era visibilmente in difficoltà, ma all’attacco di questa misteriosa pagina, il vento calmò e un principio d’arcobaleno incorniciò la cima del monte Falerzio, sull’elevarsi del motivo della benedizione e del battesimo, tra la luce del tramonto e la luna già in cielo, l’incantesimo era compiuto. segue il motivo del Lamento del redentore, che è contenuto già nel Preludio; poi si ode un motivo puro e melodico d’un carattere agreste e pastorale, che esprime l’incanto e la letizia che emanano dalle erbe, dai fiori, da tutta la natura rigenerata. La tranquilla onda melodica è interrotta da suoni cupi e agitati, col motivo della Cena Mistica e dell’amore, e con il tema del Lamento, ben presto la musica si rasserena; risuona di nuovo il tema della natura rigenerata; si ha un accenno del tema del Graal; infine, il secondo tema della purificazione si unisce con quello della natura in un finale di incomparabile bellezza. La chiusura della prima parte della serata avverrà sulle note dell’Adagio della Seconda Sinfonia in Mi op.27 di Sergej Rachmaninov, un tributo per l’anno celebrativo del doppio anniversario, che riporterà all’ascolto tutto quel romanticismo parafrasato della cultura russa che, nostalgicamente, rende questa pagina suggestiva, malinconica, dirompente, creata da un’orchestrazione ricca e possente, la cui costruzione formale, assai complessa, poggia sull’esposizione di due temi fondamentali, uno estremamente fascinoso esposto dagli archi e il secondo affidato al suono del clarinetto, il più evocativo tra le ance. Nella sezione centrale i due motivi verranno elaborati in sovrapposizione al tema ciclico che apre la sinfonia. La seconda parte della serata sarà interamente dedicata ai Quattro Pezzi sacri di Giuseppe Verdi, in un confronto con l’idea di sacro di Wagner. Qui scenderanno in campo i cori e su tutti il soprano Eva Golemi, per il Te Deum finale. Si inizierà con l’Ave Maria, per coro a cappella, composta nel 1889 come mero esercizio di contrappunto conseguente ad una proposta apparsa sulla Gazzetta Musicale di Milano di Adolfo Crescentini che aveva invitato i lettori a presentare proprie armonizzazioni sulla scala enigmatica da lui inventata. La scala compare smembrata in cellule intervallari più piccole e in diverse trasposizioni lungo tutto il brano. Immersi nell’armonia delle quattro voci e colorati dai suoni “straniati” con cui i frammenti della scala risultano nascosti per la maggior parte del brano. A differenza del brano precedente, lo Stabat Mater è scritto per coro misto a quattro voci e grande orchestra; la composizione realizzata a cavaliere tra il 1896 e il 1897 sui versi, di Jacopone da Todi. Parti melodiche contrastano con passaggi “a cappella” nel tratteggiare il dramma della Vergine che guarda al Figlio sulla Croce; l’approccio alla preghiera attribuita a Jacopone da Todi è quello dell’autore di musica per il teatro: le stilizzazioni tipiche della musica liturgica sono assenti, la musica non è suddivisa in episodi come nei grandi precedenti della tradizione italiana, da Pergolesi a Rossini, né vi sono ripetizioni testuali: Verdi, interessato al dramma umano della madre ai piedi del patibolo del figlio, ne restituisce lo strazio in un affresco cupo e dolente, in un gesto espressivo senza pause e senza respiro. Si proseguirà con le Laudi alla Vergine Maria, su versi tratti dal Canto XXXIII del Paradiso di Dante, scritte per coro femminile a cappella; in cui è evidente il riferimento al contrappunto rinascimentale. Finale con il grandioso Te Deum, composto tra il 1895 e il 1896, per due cori a quattro parti, grande orchestra, e un breve intervento solistico sopranile. L’esecuzione “senza misura” del tema gregoriano, cantato a cappella dalle voci maschili all’inizio del lavoro, diffonde sull’intera composizione un’aura di severa compostezza. Verdi evita qui il gioioso trionfalismo che solitamente caratterizza l’inno di ringraziamento al Signore; questa testimonianza dell’estrema fase creativa del Maestro si pone invece come una solenne meditazione pervasa da dubbi, più che sorretta da certezze. Pagina dal respiro grandioso e dalla singolare bellezza, il Te Deum si chiude nell’ombra malinconica che il breve, dolente postludio strumentale proietta retrospettivamente sulle parole di speranza affidate a un soprano solista: “In te, Domine, speravi”. La critica ci ha presentato sempre un Verdi ateo, ad eccezione del Mila. Forse è un problema così intimo, che mai si risolverà completamente. Forse Verdi voleva rimanesse tale, come lascerebbe supporre la disposizione che la partitura del Te Deum avrebbe dovuto esser posta con lui nel sepolcro: un testo “confessionale” che, comunque l’interpretasse il maestro, pare esser l’attestazione di una ricerca sincera della fede, per tutta la vita.