Il viaggio “inverso” di Massimo Zaffari - Le Cronache Attualità
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Il viaggio “inverso” di Massimo Zaffari

Il viaggio “inverso” di Massimo Zaffari

di Vito Pinto

Portopalo di Capo Passero è il punto più a sud della Sicilia, ma non dell’Italia, pur trovandosi al di sotto del parallelo di Tunisi; una cittadina che fonda la sua economia prevalentemente sull’agricoltura e sulla pesca del pesce spada, tant’è che sul campanile della chiesa della Madonna Greca Eleusa Madre della Misericordia è stata collocata una banderuola a forma di pesce spada, simbolo della tradizione marinara locale. Dall’altra parte dell’Europa, quella settentrionale, sull’ultima punta dell’isola di Magerøya in Norvegia è Capo Nord, un promontorio che dà origine ad una falesia, un punto estremo sito al di sopra del Circolo Polare Artico dove, in estate, persistono mesi di luce senza fine. Qui nidificano cormorani e pulcinella di mare. Tra i due punti terminali dell’Europa vi sono all’incirca 6700 chilometri di distanza ed un dislivello di 47 mila metri, numeri che certamente lasciano pensieri di riflessione a chi si vorrebbe avventurare in un tour turistico o impresa sportiva seguendo un percorso non certo contemplato dai moderni, comodi canoni di mobilità. Un’avventura, però, alla quale non si è voluto sottrarre Massimo Zaffari, classe 1973, padovano di Bastia di Rovolon, Maresciallo dei Carabinieri di stanza al 7° Reggimento “Trentino Alto Adige”, con residenza a Bronzolo di Bolzano. Un’impresa che ha tutti i tratti di una prova d’altri tempi, difficile da immagina ai nostri giorni e che ha il sapore dell’avventura, a metà strada tra l’impresa e la goliardia. Sacco a pelo, tenda, elmetto coloniale (quello dei soldati inviati in Africa per le mussoliniane conquiste per l’Impero), a cavallo di un biciclo, replica di quelli usati negli anni 1870-1890, senza marce, senza ammortizzazioni, quasi senza freni e con una resistenza aerodinamica doppia rispetto a una normale bicicletta di oggi, Massimo Zaffari si è messo “in corsa” nell’estremo Sud dell’Italia per giungere nell’ultimo lembo settentrionale dell’Europa, dopo 1 milione e 600 mila pedalate, distribuite in 78 tappe e tre mesi e mezzo di imprevisti, visioni di paesaggi straordinari e incontri con persone eccezionali cui aveva affidato, alla partenza, le sue speranze di sopravvivenza. Era, infatti, partito con in tasca qualche centesimo in più di 16 euro. Contava, in alcune città del sud e del centro Italia su alcuni amici, puntualmente incontrati, ma alla fine ha trovato l’ospitalità, l’aiuto, l’assistenza di una umanità generosa, che sa riconoscere l’autenticità delle persone. Era la fine di febbraio quando Zaffari partì da Portopalo a cavallo della sua “Penny”, come aveva battezzato il suo biciclo, giungendo a Capo Nord il 7 luglio successivo. Dice: «Avevo unito i due estremi di questo continente con la mia personale “Europe, coast to coast”. Era la soddisfazione di aver realizzato quel sogno che avevo fin da quando ero bambino, tutto preso a fissare carte geografiche appese al muro». Durante il suo lungo tour europeo, Zaffari ha incontrato meccanici improvvisati per strada, buoni samaritani, massaggiatori, olistici e fisioterapisti come Mario Laudati a Eboli, o Tullio Laconi a Pozzuoli, che gli hanno trattato una brutta contrattura senza volere niente in cambio. Dice: «Fino a Capo Nord mi son dovuto sottoporre a ben 25 trattamenti di tutti i generi, anche con l’agopuntura cinese: per 2 volte improvvisata da me stesso, da solo nell’estremo nord della Svezia senza averla mai fatta prima … poteva andare anche male! Ma mi son sempre detto che l’impresa l’avrei compiuta a qualunque prezzo. E’ sbalorditivo quanto questa parola sia relativa. Un prezzo economico quasi ridicolo che mi ha fruttato tantissimo in termini di soddisfazioni e persone. Ma un prezzo che poteva costarmi carissimo quando mi sono trovato per 2 notti di fila da solo in mezzo alle foreste della Svezia tra orsi, alci e lupi». Con non poca soddisfazione dice che il Sud è stata la sua palestra di ottimismo, grazie alla gente, solare, generosa e ben disposta. «Da queste persone – ricorda – ho imparato il tono di voce, il portamento, la faccia tosta e il sorriso: tutte armi necessarie per far breccia nel cuore di chiunque. Arte indispensabile se vuoi con pochi soldi affrontare un’avventura on the road fino a Capo Nord». Poi aggiunge: «Mi vergogno di una sola cosa: essere partito col preconcetto che al Sud avrei trovato strade disastrate e degrado generalizzato. Sono felice di essermi sbagliato e di avere scoperto su una strada splendida, come la Strada Regia delle Calabrie, persone magnifiche come Pio». E il riferimento è a quel Pio Peruzzini, fotografo per non morire, di Bellizzi, incontrato per caso che lo ha seguito passo passo nel tragitto salernitano, dandogli aiuto e ospitalità. Ecco la cifra giusta per una impresa, il calore delle persone che fa la differenza tra un semplice itinerario e un grande viaggio. Del suo passaggio nel salernitano, Zaffari ricorda: «Nonostante il maltempo che si è abbattuto sulla città di Salerno proprio mentre la stavo attraversando, non ho potuto non cogliere il calore e l’apertura delle persone incontrate per strada, sempre lì a guardarti con un sorriso e a volte a salutarti, fino ad arrivare a fermarti per una foto simpatica. Percorrendo la Strada Regia delle Calabrie ho provato un certo senso di pace lungo il corridoio pianeggiante incastonato tra i pendii e i borghi degli Appennini. Nella mia fantasia me lo aspettavo arido e con i cactus… non so perché. Al contrario la piana verde fitta di ulivi che mi si è aperta nella discesa dallo Scorzo a Eboli ha regalato ai miei occhi momenti di assoluta serenità e tutto questo nonostante in quel momento mi trovassi sotto la grandine che picchettava sul mio improbabile elmetto coloniale.» Una strada, una volta, impervia, polverosa, ma obbligatoria per chi voleva proseguire un itinerario verso le Calabrie, una strada d’obbligo per i legionari romani come per i tanti eserciti che nella storia l’hanno percorsa, così come lo era per i corrieri di posta e per quei viaggiatori del Grand Tour che si avventuravano oltre il Sele. Ricorda Zaffari: «C’è stato un momento in cui, grazie ai racconti di Pio (Peruzzini) sul servizio postale borbonico, sono riuscito quasi a vedere le diligenze e i carri trainati dai cavalli sulla salita dello “Scuorzo”. Con il mio biciclo sono riuscito a immedesimarmi e a comprendere le fatiche dei faccendieri e dei trasportatori dell’800, anche se al momento del mio passaggio il manto stradale perfettamente asfaltato ha dato alla ruota in gomma piena del mio velocipede momenti di pace e tranquillità. In macchina e in moto si fatica a comprendere quanto importante sia il fondo stradale di un itinerario.» Primo nella storia a compiere un’impresa siffatta, Massimo Zaffari, con garbo e un dolce sorriso, dice: «Non sono mai partito con l’idea di realizzare un’impresa atletica. Per me, lo sport non è vincere gare ma cavalcare emozioni, inseguire sogni, vivere magie, magari dentro un grande viaggio. Certo, ho voluto mettere alla prova i miei limiti fisici… ma in realtà volevo solo riscoprire quel desiderio di “restare stupito” da me stesso!» E la memoria ci rimanda quanto scriveva Cesare Pavese: «Finché si avranno passioni non si cesserà di scoprire il mondo».