di Peppe Rinaldi
L’alternativa era tra l’amputazione di una gamba divorata dall’acido del diabete oppure giocare il tutto per tutto scommettendo su scienza ed equilibrio dei medici al suo capezzale: alla fine, un settantenne si è affidato (oltre che al Padreterno) all’umana capacità di risolvere il problema puntando su un intervento chirurgico molto particolare, di quelli che fanno tremare i polsi solo a pensarci. Il problema era serio, serissimo. E’ andata bene, come vedremo. Siamo al “San Francesco D’Assisi”, ospedale di Oliveto Citra, piccolo e importante presidio della media valle del Sele, struttura vitale per decine di migliaia di persone che in quell’area apparentemente emarginata ci vivono e che, diversamente, dovrebbero accollarsi trasferte costose e faticose. La storia, interessante sotto ogni profilo, è questa. Un settantenne salernitano affetto da diabete, malattia “occidentale” per eccellenza, aveva una gamba in condizioni disperate in quanto il male aveva quasi del tutto eroso l’arto, partendo dal tallone fino all’area sovrastante il polpaccio. Presentava, in pratica, un’infezione gravissima alla gamba sinistra, con evoluzione in gangrena, estesa dal calcagno fino ai muscoli della gamba, conseguenza di un’ulcera neuropatica tipica di chi soffre di diabete. Era andato tutto in necrosi, per usare un termine tecnico, vale a dire tutto infettato, mangiato dalla malattia che come un liquido sulfureo stava corrodendo l’organo del paziente, il quale prima o poi, nella migliore delle ipotesi, avrebbe subito l’amputazione. Del resto, nella sconfinata casistica delle conseguenze del diabete, l’amputazione progressiva degli arti inferiori compare spesso. Che si fa dunque? Gli tagliamo la gamba e poi Dio provvederà oppure proviamo a salvargliela azzardando una mossa chirurgicamente impegnativa che gli salverebbe, per inciso, pure la vita? E’ quel che avranno pensato i medici di Oliveto Citra al cospetto delle condizioni, per nulla rassicuranti, del settantenne. Detto fatto: il punto è che tra la decisione e la realizzazione non sempre la linea è retta, ci sono variabili incontrollabili che sfuggono a qualsiasi previsione. Restano solo la scienza di chi dovrà curarti, il relativo coraggio professionale, una struttura amministrativa e sanitaria che ti metta in condizione di operare e una équipe di collaboratori e professionisti adeguati al rango della scommessa. Queste le tappe dell’intera operazione. Il primo intervento è stato fatto agli inizi di settembre scorso con asportazione degli ascessi, delle zone necrotiche e di tutto il tendine d’Achille ormai «colliquato», come dicono i chirurghi, cioè quasi liquefatto. La necrosi del tendine d’Achille è un fatto molto raro se non addirittura eccezionale, ecco perché la faccenda si presentava complicata più del solito. Dopo il primo intervento, al paziente residua un’ampia ferita aperta dal calcagno a metà gamba, ovviamente la deambulazione era diventata molto difficile senza il tendine achilleo. Quindi il settantenne presentava una invalidità funzionale molto rilevante. A quel punto, il chirurgo flebologo dell’ospedale di Oliveto, Vito Gargano, e l’ortopedico Giampiero Calabrò decidono di tentare l’innesto di un tendine achilleo prelevato da un cadavere e ne fanno formale richiesta alla “Fondazione Banca dei Tessuti di Treviso Onlus”, uno dei centri specialistici italiani. Il 19 ottobre è il momento clou dell’impresa col trapianto del tendine dal cadavere. Non si conclude qui, ovviamente, la cosa perché uno dei primi rilevanti problemi consisteva nel come fare per coprire il tendine in quanto mancava completamente la cute distrutta dall’infezione. E qui la “scientifica fantasia” dei medici li obbliga a ricorrere alla copertura del tendine con pelle artificiale. Dopo altri 45 giorni il paziente viene sottoposto a un altro trapianto di cute, però prelevata dal paziente stesso nella sua regione glutea, cioè dalle natiche. A quel punto s’è trattato solo di seguire settimana dopo settimana, giorno dopo giorno l’evoluzione clinica del paziente fino alla guarigione completa verso la fine di febbraio. Attualmente il settantenne gode di buona salute e cammina normalmente: non era scritto da nessuna parte che tutto filasse liscio, sicuramente è stata una sfida terapeutica con ampie possibilità di insuccesso, smentite però dal risultato finale. Schematicamente possiamo riassumere il tutto in questo modo: gli interventi in totale sono stati tre, il primo ricovero è stato di sette giorni, il secondo di due giorni e il terzo di un solo giorno. Il miracolo, però, non è piovuto dal cielo in questo caso ed è stato realizzabile perché ha funzionato il lavoro di squadra e, soprattutto, perché dal vertice è partito il via libera verso l’ignoto puntando tutto sulla fiducia dei propri operatori che, giustamente, vanno segnalati uno per uno, a partire dal dottor Ermanno D’Arco, direttore della Divisione di chirurgia, continuando, poi, con l’équipe chirurgica dei dottori Vito Gargano, Antonino Esposito, Luigi Nunziata e Rosario Tolomeo; quella chirurgico-ortopedica rappresentata dai dottori Giampiero Calabrò e dallo stesso Vito Gargano; proseguendo, ancora, con l’équipe anestesiologica delle dottoresse Maria Luisa De Prisco e Giulia Landi e del dottor Gaetano Borrelli. La tecnica anestesiologica utilizzata si chiama «anestesia plessica» e consente un rapido recupero rispetto alla classica spinale. La coordinatrice infermieristica della chirurgia è stata Vita Tortoriello mentre l’omologo di sala operatoria è stato Eliseo Esposito.