Tino Caspanello, autore, regista, attore, ci regala le sue riflessioni su quell’attesa riforma che tuteli il Teatro ponendo attenzione al tessuto capillare che lo compone e che lo anima
Di Tino Caspanello
Abbiamo detto, credo, tutto in questo tempo. Abbiamo letto, dichiarato, pensato, progettato, scritto, pubblicato, abbiamo invocato cambiamenti, riforme, nuove legislazioni, e abbiamo affidato le parole ai social media, ai proclami, ai giornali, ai politici. Spero che niente finisca nel vento, nemmeno gli slogan e i teoremi di chi vagheggia azzeramenti, ricambi generazionali (sperando che non si trasformino in vuoti generazionali), formule nuove e linguaggi ogni giorno diversi. Sappiamo cosa si è perso in questo tempo, ognuno di noi ha fatto i conti con le nostre economie – per molti molto misere – con le date cancellate, le promesse, con la scrittura e i disegni rimasti sul tavolo, ma sappiamo, soprattutto, che rischiamo di perdere l’attore più importante, il pubblico. Il teatro muore! Il teatro muore! Sembra di sentire le parole di Ionesco. Vogliamo chiederci, però, allontanandoci da questi giorni, quante volte l’abbiamo fatto morire questo Teatro? Tutte le volte che abbiamo parteggiato ora per il testo ora contro di esso, ora contro la regia ora a suo favore, ora osannando l’attore, ora il non-attore. Forse, altri hanno sperato che muoia, invece è sempre là, pronto a ripensarsi, a rigenerarsi, a ripresentarsi vivo. Il Teatro muore ad ogni chiusura di sipario, lo sappiamo, è una lezione antica, muore perché la morte gli appartiene, la sfiora con le mani nude, la getta, crudele, nella cavea della vita restituendo a questa la sua dignità. Muore invece veramente il Teatro ogni volta che il politico lo pervade, ad ogni nomina di direttori collusi, ad ogni algoritmo che non può misurare la fatica e la grazia. Muore per ogni attore che è messo da parte per i suoi anni o per ogni giovane osannato per la sua età, muore per ogni giovane il cui talento non ha tutele e per ogni anziano che ha perso la speranza in ogni sostegno, e muore quando anche la più piccola sala nel più piccolo comune di questo paese è costretta a chiudere. Aspettando – ma da quanto tempo ormai? – una riforma che tuteli il Teatro ponendo attenzione al tessuto capillare che lo compone e che lo anima, penso che oggi sia molto più importante fissare il nostro obiettivo sul soggetto a cui dire, più che sull’oggetto da raccontare e sulle modalità per farlo. E su questa proposizione possiamo cominciare a puntare il dito contro tutte le cause, gli errori e le cadute, che hanno allontanato, e non da adesso, pubblico e Teatro. A chi imputare la responsabilità? A tutti, noi compresi. Non riesco ad escludere nessuno: ora l’artista, ora il direttore, ora il critico o lo stesso pubblico. Fino a quando non rimetteremo in moto quel processo comune di crescita, e non già economica, che vede nella cultura il valore più alto del nostro vivere – e non credo ci sia bisogno di spiegare le ragioni di questa sua posizione – e fino a quando l’economia continuerà a dettare le leggi al nostro tempo, non potrà esserci spazio per lo spirito, per quello spirito che ha bisogno di essere sollecitato, non solleticato, da ogni possibilità di pensiero, di analisi, di critica, prerogative che a tutti appartengono e che tutti hanno il diritto di esercitare. Tutti. Perché, fermarsi davanti all’opera, significa arrestare il passo di fronte al paradosso, al possibile, alla contraddizione che definiscono la nostra intelligenza. E, mi fa pena dirlo, mi capita di vedere con tristezza molte pubblicità – non soltanto di prodotti da comprare! – che, ispirandosi alla situazione e al linguaggio di questo tempo, si sono adeguate al nuovo che avanza (sic!) proponendo nuovi fortunati modelli da imitare. Noi, fatti a somiglianza di… Lasciamo stare. Vorrei chiudere con una domanda. A chi manca il Teatro? Agli artisti manca sempre, dal momento in cui si spengono le luci – conosco il vuoto che si prova ad abbandonare ogni sera la scena – anche se sanno che il giorno dopo ci torneranno sotto quei riflettori. Se diamo per assunto che la cultura, da sempre, non è un optional, un bonus, una bandierina da sventolare soltanto nelle parate, un vizio da intellettuali o un lusso da ricchi, e non è nemmeno un diritto da garantire con leggi e postille, ma, molto semplicemente, il bene da proteggere e fare crescere, allora il Teatro, e non soltanto il Teatro, dovrebbe mancare a tutti e tutti dovremmo cominciare a pretendere a voce alta che ci venga restituito quello che ci è stato tolto, e non da ora.