Il sogno di Cenerentola - Le Cronache
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Il sogno di Cenerentola

Il sogno di Cenerentola

Dopo vent’anni trionfo per l’opera rossiniana firmata da Francesco Ciampa e Riccardo Canessa, pari a quella dell’allestimento 2002 del binomio Di Stefano-Livermore. Belle voci, su tutti Carlo Lepore, Teresa Iervolino e Vito Priante, nota di merito per i flauti, i clarinetti e i fagotti

Di Olga Chieffi

 “Certe volte mi facevo dei sogni talmente belli che mi parevano spettacoli di operetta di teatro…e quando mi svegliavo, facevo tutto il possibile di addormentarmi un’altra volta per vedere se era possibile di sognarmi il seguito. Ma allora la vita era un’altra cosa”. “Stanotte, per esempio, indovinate chi stava dietro ad un’asina con una pancia grossa così? La buon’anima del padre di Don Ferdinando: vostro suocero. E l’asina sapete chi era? Voi donna Concetta!”. Il portiere Michele de’ “Le voci di dentro” e Aglietello di “Non ti pago!” ci sono balenati nella mente all’aprirsi del sipario su’ “La Cenerentola” andata in scena sul palcoscenico del Teatro Verdi di Salerno, per la regia di Riccardo Canessa e la direzione di Francesco Ivan Ciampa. Il sogno de’ La Cenerentola è qui: il ritorno a quando “la gente era pura e genuina” e il sogno della “fortuna”, sia essa una quaterna o il principe che impalmi la figlia femmina o la speranza di essere sollevata dalla cenere del focolare. La cucina economica al centro del palcoscenico, Cenerentola che pela le patate, in laterale Clorinda e Tisbe alla toilette. Entra Alidoro per portare sul trono “la bontà in trionfo”, a fianco del principe Don Ramiro in cerca della sua sposa. Questo l’abbrivio de’ La Cenerentola di Riccardo Canessa attraversata da questo leit-motive con varianti significative di registro, di genere e di soluzione, i riferimenti al comico e la commedia che porta al lieto fine l’amore di Don Ramiro e Cenerentola, di contro, il quasi-tragico o il tragi-comico, quando il sogno della Fortuna o la ribellione ad essa porterà Clorinda, Tisbe e Don Magnifico a ricadere, più disillusi, sotto il giogo-gioco delle sue inafferrabili leggi. Scene in bianco e azzurro Napoli, come anche divise e vestiti dei personaggi buoni, principe, corteggio, Dandini e Alidoro, livrea rossa, invece per il nostro eccezionale Don Magnifico, impersonato da Carlo Lepore, che al ballo si trasforma in Gaetano Semmolone, il tutto firmato da Alfredo Troisi, mentre Dandini, un pari Vito Priante, emula Totò interprete dello scrivano Feliciello Sciosciammocca, protagonista della scarpettiana “Miseria e Nobiltà”, con tanto di citazione nel servizio della cena, con la zuppiera di spaghetti depredata con le mani, nonché con la perdita del baffo finto da parte di Dandini, nelle diverse chiamate al proscenio. Intuizioni felici, queste, che rivelano il teatro amato da Canessa, non quanto le proiezioni del ciuccio che vola e delle api, inutili sottolineature di quanto già si canta e l’evocazione sul muro della silhouette di Totò marionetta, a “benedizione” dei cantanti che nel celebrato sestetto del II atto “Questo è un nodo avviluppato”, si muovono proprio come lui, a simboleggiare quel meccanismo perfetto che è questo pezzo d’assieme, che prende avvio da un quartetto con canone alla quinta. Ecco, dunque, una “figlia della cenere” che diverte e incanta, grazie ad una convincente Teresa Iervolino, protagonista al centro della scena, prima timida e dimessa, risale poi la china, in pochi tratti con lo scatto e il lampeggiamento erotico, che vuol insegnarle Tisbe, e che fa addirittura citare al clavicembalista Maurizio Iaccarino, “I Wanna Be Loved By You”, a cui poi ha aggiunto nella trasformazione Bibbidi Bobbidi Boo e qualche nota dal Volo del calabrone, in piena estasi creativa. Angelina non può far non pensare alla Teresa Berganza, la più grande Cenerentola da poco scomparsa, e la Iervolino l’ha ricordata nella sillabazione mai troppo accentuata e la parola chiara, il melos che si è percepito nota per nota, nella sua profilatura, tanto che l’acrobazia, il canto fiorito, è passato in secondo piano, rispetto al timbro e all’inflessione. Non possiamo dir parimenti del tenore Francisco Brito, che ha arrancato nelle colorature, ancora acerbo nella sapienza di emissione, rendendo le ornamentazioni meccaniche, addirittura aiutandosi con il beccheggio del corpo, sparando negli acuti e quindi giungendo sfibrato e “impolverato” alla fine della rappresentazione. Il re del sillabato è Carlo Lepore, dal virtuosismo vocale eletto, in cui ogni nota con assoluta eguaglianza, viene sgranata e congiunta, e la tecnica implacabile a “coprirne” i suoni sul “passaggio” perché il colore e il peso di ognuna siano eguali. Di una sicurezza strabiliante ha fatto nascere dallo scavo psicologico , dall’intuito teatrale e dalla finezza musicale e dal gusto vocale il Don Magnifico di questa produzione, dalla cucina alla scena della cantina, sino al finale, strappando applausi a scena aperta. Vito Priante, Dandini, è elemento insostituibile in una produzione tale,  elegante nella sua aria di sortita “Come un’ape nei giorni d’aprile”, aggirandosi per una Salerno riprodotta attraverso i fregi, le fontane, le finestre dei palazzi del nostro centro storico, perfetto nel duetto con Carlo Lepore, in cui il sillabato diventa stroboscopico.  Incertezze dell’Alidoro di Tommaso Barea  nei pezzi d’assieme, mentre le due sorelle Clorinda (Barbara Massaro) e Tisbe (Rosa Bove) hanno giocato in coppia, accomunate dalla sciocca viltà che le caratterizza, con Tisbe, però, che ha ampiamente soverchiato la sorellastra per timbro e proprietà stilistica. Nei pezzi d’assieme si sovrappongono vocaboli  e pensieri, un modo frenetico per giungere  allo stato d’animo collettivo, infine al silenzio imbarazzante dove mulinano concetti non espressi, perfidie , colpe, vergogne. Giù in buca è difficile tenere i capi e sgrovigliare questi intricatissimi nodi. Ci è riuscito Francesco Ivan Ciampa mantenendo estrema calma e non tentando nulla che potesse far bloccare il delicato congegno ad orologeria, nonostante le diverse discronie tra i protagonisti e pure del coro, preparato da Felice Cavaliere. Rossini si sa ha piglio energico, può travolgere palcoscenico e orchestra, ma….e lo diciamo con l’avversativa di Rosina, Francesco Ivan Ciampa ha diretto una formazione esperta di cui non possiamo che dir bene, dominata come non mai dai flauti, dai clarinetti e dai fagotti, mentre qualche screziatura l’hanno offerta, purtroppo, ancora i corni e il primo oboe, fuori amalgama, per suono, con gli altri legni, che rappresentano l’altra, altissima, parola e anima rossiniana.  Applausi per tutti e lanci di rose dai palchi, cocchio con tiro a due pronto e vissero tutti felici e contenti.