Il segno iridescente di Simona Fredella - Le Cronache
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  Il segno iridescente di Simona Fredella

  Il segno iridescente di Simona Fredella

Attrice ed artista è la Tecla nel film “Il sorriso di San Giovanni” di Ruggero Cappuccio e Nadia Baldi che stasera vivrà la sua anteprima

 

 Di Olga Chieffi

 L’attrice salernitana Simona Fredella è una delle componenti della compagnia del Teatro Segreto di Ruggero Cappuccio, del quale stasera a Napoli verrà presentato in anteprima il film “Il sorriso di San Giovanni”. Della famiglia dei Valguarnera lei sarà Tecla. L’abbiamo raggiunta alla vigilia della proiezione.

 Cosa l’ ha convinta a salire sul palcoscenico e quando ha deciso che da quelle tavole non sarebbe più scesa?

 Non saprei dirlo con precisione. Da sempre subisco l’incantamento del mondo del visivo, che in me si declina in varie forme. Forse si tratta di un’inspiegabile, irresistibile richiamo che “sento” da quando ero piccola e che mi “obbligava”, per esempio, a prendere in ostaggio le mie sorelline e preparare dei piccoli spettacoli da mostrare a famigliari ed amici. Quando però avevo circa quindici anni, all’invito della mia professoressa d’inglese, decisi di prendere parte ad un laboratorio teatrale doposcuola tenuto da Anna Nisivoccia nel delizioso ed allora decadente teatrino del liceo artistico Andrea Sabatini: ecco, d’allora il richiamo delle tavole si fece sempre più forte. Che riesca a non scendere più… me lo auguro fortemente!

 Quali sono i suoi percorsi artistici? Chi sente di poter definire suo Maestro?

  Tornando ai tempi del piccolo teatrino del mio liceo, la mia prima insegnante è stata, appunto, Anna Nisivoccia. Dopodiché ho continuato ad agire per diversi anni nel territorio salernitano con Antonello De Rosa, che mi ha “iniziata” al teatro professionale, parallelamente alle attività svolte con Pasquale De Cristofaro. Dopo un’inspiegabile reticenza al percorso accademico ed una cocente delusione alla scuola del Piccolo Teatro di Milano – scartata alle ultime selezioni – mi sono consolata con la fortuna di continuare la mia formazione con diversi insegnanti, attori e registi italiani ed internazionali. Il mio percorso, come può immaginare è stato piuttosto movimentato e sfaccettato; ma coloro che più hanno lasciato un segno profondo nel mio modo di pensare e vivere la scena sono stati Mimmo Borrelli e, soprattutto, Ruggero Cappuccio.

 Volendo focalizzarci sul suo personale percorso, com’è evoluta la sua visione di questo mestiere dal momento in cui ha modo di relazionarsi con esso direttamente? Cosa vuol dire, in questo momento, essere attrice in Italia?

 Non posso negare che, se penso ad un senso “d’evoluzione”, esso sia diventato un po’ più grigio, un po’ più pragmatico rispetto ai sogni iridescenti di una ragazzina. Il che si ricollega alla seconda domanda: essere un attrice in Italia o, per lo meno, un’attrice “come me” è…angosciante. S’investono enormi quantità di energie, tempo e – perché no – denari alla ricerca di percorsi di formazione, di opportunità lavorative, cercando a tutti i costi (o per quanto possibile) di scansare lo sfruttamento, la denigrazione della propria identità professionale. Personalmente, non mi sono tirata indietro nello svolgere mansioni di “salvataggio” come fare i coni gelato o servire ai tavoli di un pub pur di difendere ad ogni costo la mia fragile autonomia. Per fortuna, di tanto in tanto riesco a giocare a questo scopo il mio asso della manica: il disegno, che mi permette di guadagnarmi un po’ da vivere, restando in un’atmosfera di sogno…E siccome a tal proposito, siamo “condannati” a sognare, preferisco conservare il mio entusiasmo in un altro senso di evoluzione, che prevede una ciclica ed irrimediabile demolizione di ogni piccola certezza, ogni piccolo appiglio a ciò che si è imparato fino a quel momento quando si mettono le mani, le idee, le energie su un nuovo lavoro. Insomma, cerco di non perdere fiducia nell’immenso potere della ri-scoperta, della meraviglia. Per questo mi preoccupo continuamente di dare carburante alla fiammella della bellezza, nelle maniere più disparate.

 Quanto è difficile per i giovani attori trovare uno spazio per riuscire ad emergere?

 Davvero tanto. Ammetto, d’altronde, questo mio restare nella mia piccola città natale, al momento, mi mette su un piano diverso rispetto a tutti i miei colleghi che hanno scelto di spostarsi in grandi città dove tentare un “respiro teatrale” più ampio (forse). Per cui non mi sento di poter illustrare un quadro sufficiente. Certo, non posso negare che Salerno sia carente di prospettive e relazioni (forse anche paradossalmente troppe, su un piano scomodamente personale…ma non voglio essere cattiva e riconosco anche il merito di luminose eccezioni, ad esempio quelle create dai miei infaticabili amici Vincenzo Albano e Stefania Tirone). Dal mio ridotto punto di vista, io riesco a prendere qualche energia facendo qualche salto a Napoli dove ho felicemente creato la mia piccola rete di contatti e amicizie. Da poco ho un’agenzia che mi segue. Ho avuto le mie piccole grandi fortune, fino ad ora, ma ogni giorno si affaccia la prospettiva di una continua lotta col “domani”. D’altronde, chi è che non viene scaraventato nello stesso ring?

 Immagino che la svolta artistica in campo teatrale, l’abbia offerta la collaborazione con Ruggero Cappuccio. Come è avvenuto l’incontro, con lo scrittore-regista, cosa l’ha conquistata del suo progetto?

  È stato senza dubbio così. Ho personalmente conosciuto Cappuccio durante un laboratorio teatrale da lui tenuto nel settembre 2014, previo accorato consiglio della mia cara amica e collega Gina Ferri, già attrice e collaboratrice storica del suddetto. Catapultarmi nelle stanze di un antico palazzo del Cilento – terra a me già cara – tra polvere e resti di preziosi parati che raccontavano malinconicamente un passato sospeso, evocare con i suoni dei sensi racconti di bellezza e mistero, di ricordi conservati con cura e dolcezza… è stata una folgorazione non indifferente. Da lì ho deciso di proseguire il mio personale studio sull’opera di questo autore. Quattro anni dopo, invece, fu lo stesso Cappuccio ad “arruolarmi” come attrice per il riallestimento di Desideri Mortali al teatro San Ferdinando. Quello è stato l’inizio di una vera e propria rivoluzione.

 Lei ha avuto un ruolo nel film “Il sorriso di San Giovanni” basato sull’attaccamento alle mura della casa della schiatta dei Valguarnera, un leitmotive che attraversa l’opera di Ruggero Cappuccio, assieme a quella della ricerca di una lingua che riesca a “dire” l’indicibile, sulle tracce di Tomasi di Lampedusa. Ci illustri il suo personaggio all’interno di quest’opera

Tecla vive con i suoi fratelli e le sue sorelle nel diruto palazzo di famiglia, nel deserto ed immaginario paesino di Vallemarosa, arroccato sulle colline che circondano Napoli. Lei, a differenza degli altri eredi Valguarnera, fu l’unica ad essere mandata dai genitori a studiare in un collegio nel selvaggio e misterioso Cilento. Ebbene, quando Tecla torna a casa, torna esprimendosi solo ed esclusivamente nel dialetto appreso durante gli anni degli studi lontani: quello cilentano, appunto. A nulla servono gli appelli di Giacinto, il fratello maggiore, a “levarsi i friarielli da bocca” e parlare “italiano”, decide adottare definitivamente il dialetto una lingua antica e materica, che sembra l’aiuti a mantenere viva nella una parte della sua identità conosciuta e sviluppata in un luogo e un tempo ormai lontani, trattenendo il desiderio di una vita che si muove in una direzione di rinnovata ancestralità. Questa lingua “barbara” eletta dalla Valguarnera – per scelta e non per questioni di eredità antropologica – diventa quasi una formula magica che le permette di assumere un’altra identità, che le permette di tenere viva dentro quella parte di sé che ha potuto assaporare una vita diversa, che ha conosciuto il gusto di un’altra realtà. Parlare in cilentano, è un modo per tenere accesa la fiammella del ricordo di una Tecla lontana da se stessa, dalla sua prigione di Vallemarosa. Per tenere teso il desiderio della fuga. Tale slancio di fuga, però, sembra mirare non solo ad una traiettoria che punta alla rielaborazione di una dimensione ancestrale, istintiva di sé, ma anche verso  la semplicità, la disarmante purezza di un orizzonte libero, sconfinato, eppure così vicino: proprio come quando, nei suoi sogni, cielo e mare s’incontrano davanti alla spiaggia della cilentana Marina d’Agnone. Tecla, dopotutto, ha un animo puro, semplice, incompreso. Al superfluo, alla ricerca spasmodica di una perfezione artificiosa dell’arte, lontana dalla vera, profonda, natura dell’essere umano, lei contrappone la bellezza custodita nella riscoperta dell’essenzialità delle origini, nel legame ancestrale e immarcescibile tra l’uomo e la natura, nell’intelligenza suprema dell’istinto. Ah, avevo già accennato a quanto il Cilento mi fosse caro: la mia amata nonnina era di Ascea e lì ho trascorso molto tempo della  mia vita, circondata da i miei famigliari e da un’atmosfera così tipicamente eppure inspiegabilmente…cilentana! Diciamo che questo legame di sangue non ha potuto che aiutarmi molto a fare la conoscenza di Tecla.

 Simona Fredella non solo attrice ma anche artista, sua la mostra Malùra, ospite del Museo di Capodimonte nell’ambito della passata edizione del Campania Teatro Festival, un segno forte il suo sul disfacimento e la ri-nascita della drammaturgia partenopea, che come la sua musica “porosa” come la città – per dirla con la definizione che Benjamin coniò per Napoli -, ha assorbito tutto, riuscendo a rimanere in fondo sempre se stessa. Come nasce l’artista?

Torniamo a quegli incomprensibili ed irresistibili richiami. Da che io abbia memoria, ho sempre disegnato. Lo storico complice del misfatto è stato mio padre, che reputo un talentuosissimo non-esercitante, nonché la dolce presenza di sua sorella, mia zia Maria Grazia, anche lei avvezza a questo mondo del figurativo. Ho poi frequentato il liceo artistico, appunto, ma solo ora che sono un po’ più grande, denuncio a me stessa le ingiustizie che ho inflitto a questo mio “dono” – se così vogliamo chiamarlo – ignorandolo, sottovalutandolo continuamente, non coltivandolo. Ma la sua “presenza” nella mia vita era un dato così scontato per me che ho lasciato mi accompagnasse sempre in sordina. Questa ri-presa di coscienza mi è senza dubbio stata offerta dalla preparazione della mia “Malùra”, che mi ha obbligata a stare faccia a faccia col foglio bianco, il mio abisso e gli universi di tutti quei geni della drammaturgia per lungo tempo. Ancora una volta, non posso che ringraziare con tutto il cuore colui che mi ha dato tutta questa fiducia: Ruggero Cappuccio.

 Chi è Simona nel quotidiano, fuori del teatro e del suo studio di artista?

 Una ragazza alla soglia dei trent’anni che cerca di acciuffare continuamente l’essenza di se stessa tra le conseguenze del suo caos, del disordine, dei suoi atti maldestri e, forse, qualche eccesso di tenerezza. Che riserva le sue premure (e buona parte dei suoi esigui guadagni) al benessere di Lara, Zeno e Caterina – i suoi tre gatti.

 Considerato che teatro e cinema diventano un affresco dove cogliere talenti ed emozioni da offrire al pubblico, in che modo la sua innata predilezione per l’arte influenza il suo recitare?

Bisogna essere sempre disposti a lasciarsi stregare, incatenare dalla più apparentemente insignificante delle immagini, dei suoni, delle memorie. Avere il coraggio di subirne tutte le conseguenze, anche le più estreme, dall’estasi al dolore. Una sorta di condanna di andare a fondo più profondo, sempre, a tratti in maniera ossessiva, ad ogni sfumatura di luce, ad ogni lesione – nelle parole, negli atti, negli sguardi degli uomini – nelle vibrazioni di ogni creatura . È rischioso perché ci si sente infinitamente ricchi (in modo quasi ultraterreno) e, spesso, terribilmente soli.

 E riguardo il suo futuro, dove si vede  tra dieci anni?

Dalla lotta col futuro e i suoi aspetti più pratici scaturisce molta nebbia – e quindi non riesco a vedere molto bene… ma dopotutto anche la nebbia possiede la sua poesia!
Diciamo che sarebbe fantastico se io riuscissi a vivere serenamente, con l’arte che nasce dalle mie mani o dalle mie relazioni col genere umano – che sia su un palcoscenico, dietro una videocamera, su una tela – in una bella casetta, magari antica e immersa nella natura, prendendomi cura dei miei piccoli tesori.