di Gemma Criscuolo
Ottenere l’invalidità civile? Un percorso che farebbe impallidire gli scenari danteschi: certificati, attese, esami clinici, ferite che incrudeliscono ogni volta che sono ricordate. La sofferenza ha di certo diritto a un risarcimento. Ma come uscirne, quando il male è la vita stessa? Tagliente e ipnotico, ma non immune dall’ironia, “Il peccato originale” è il romanzo, edito da Rizzoli, di Massimiliano Palmese, autore, nel 2019, di un’ammaliante traduzione dei sonetti di Shakespeare per Bompiani e regista, con Carmen Giardina, de “Il caso Braibanti”, Nastro d’Argento 2021. Schiena a pezzi, instabilità psichica e un conto mai chiuso con il passato, il protagonista scandisce con solenni sbronze i tenaci tentativi di vedersi riconosciuto un sostegno economico, con buona pace della tronfia dichiarazione di Luigi di Maio (“Abbiamo abolito la povertà“), causticamente posta all’inizio del primo capitolo. Chi, come afferma l’uomo, voglia far fruttare le proprie malattie, non potendo far lo stesso con le proprie poesie, non gode in effetti di grandi finanze, ma il lettore può stare tranquillo: non c’è traccia di autocommiserazione o di indulgenza al patetico in questo libro. L’io narrante presenta, al contrario, uno sguardo caustico e profondo sulle vicende, lasciando i personaggi molti passi indietro rispetto agli stereotipi in cui potrebbero facilmente cadere. Ne è chiaro esempio il patrigno, che tanta parte avrà nella narrazione, ma anche la madre, nella quale determinazione e debolezza si mescolano, impedendo di giungere a una concezione univoca di questa figura. Le tematiche affrontate nel libro non sono nuove : il malessere fisico come rivelazione di quel che si preferirebbe nascondere nelle proprie viscere, la scrittura come autoanalisi, ma non come approdo anche solo al miraggio di una qualsiasi certezza, la ricerca della purezza (a suo modo pasoliniana)tra coloro che vivono ai margini della società e con cui oscillare tra opportunismo e desiderio, l’ambiguo e superbo fascino di Napoli. Ciò che affascina nella narrazione è l’equilibrio (che ama contraddire se stesso) tra scarto ed empatia, tra la distanza di chi ha capito quanto sappia essere opprimente questa “forsennata fuga in avanti della materia” che chiamiamo vita e l’urgenza di perdersi nei sensi, perché il meraviglioso naufragio dei (nei) corpi possa riscattare le trappole tessute con nevrotica pazienza. Sono numerosi i momenti in cui si è ben lieti di essere complici di Palmese nell’accidentato viaggio verso una parvenza di reddito: basterebbe pensare alla descrizione della “buona società” dei Colli Aminei, arroccata nell’aridita’ tipica di chi misura tutto in base al portafoglio o ai tentativi di fuga dell’asilo, visto che non è mai troppo presto per sottrarsi al gioco truccato dei giorni che promettono, ma non mantengono. In quel peccato irredimibile che è l’esistenza, la libertà chiede un prezzo che va pagato fino in fondo: lo sa bene lo scugnizzo, il padre del protagonista troppo giovane per assumersi responsabilità e troppo adulto per essere inchiodato a una categoria. Secondo lo scrittore, vivere ricorda il movimento del gatto di Scarlatti sul clavicembalo: la stessa casualità, che però nessun demiurgo traduce a sua volta nella Sonata in sol minore K.30, cioè in qualcosa di sensato e destinato a durare. Eppure è l’assurda bellezza degli slanci e delle pulsioni a dare valore a ogni respiro.