Rino Mele
Tutto è già presente nel buio che s’apre senza riparo, difficile, della nascita. Poi, succhiando il seno, inizia questo duello in cui il piccolo è destinato a utilizzare armi improprie, di predazione, elaborate secondo fantasie inconsce, e distruttrici, rispetto al seno cui risponde – quando sembra non assecondare la sua avidità – con meccanismi riconoscibili come una sorta d’invidia. Catturando il seno, “il bambino, un tempo parte della madre, ora ha la madre dentro di sé”: chi ha detto questa frase fulminante per troppa luce? Un’acutissima psicoanalista, dopo Freud e prima di Lacan: Melanie Klein, e l’ha scritto in un libro che possiamo considerare conclusivo della sua lunga ricerca, “Invidia e gratitudine”, 1957. La nascita (che noi stoltamente idealizziamo, con moine e apine che facciamo girare sulla giostra della culla) è un trauma inimmaginabile, più violento dello squassarsi di un terremoto. Dall’essere staccati dal se stesso confusivo col corpo materno s’innescano tensioni distruttive, che accompagneranno per sempre il piccolo dell’uomo. Il rapporto col seno si presenta subito come inadeguata sostituzione al rapporto pieno e unitario della condizione prenatale, mostrando i terribili effetti della lacerante separazione dallo stato precedente, e della confusa percezione di discontinuità nel nuovo. All’inizio il seno è tutta la madre, per il piccolo astronauta all’esterno dell’astronave. Melanie Klein si pone subito un problema essenziale e difficile: come progressivamente l’infante risolverà il rapporto tra il seno e le altre parti del corpo della madre? Una sorta d’ineliminabile scissione, sull’orlo di un delirante aggregarsi di parti tra loro distanti, un rapporto che la Klein prudentemente definisce “non ben definito”. In questo duello, in questo furioso corpo a corpo, l’invidia è una reazione primaria: essa è duale, si consuma tra loro due, il piccolo corpo nato e la madre. Ben presto l’infante – c’insegna la Klein – sdoppia il seno in buono e cattivo. Dall’aggressività al seno buono deriveranno innumerevoli il senso di colpa, e la necessità di ricostruzione di ciò che l’infante continua a distruggere. La gelosia, che deriverà dall’invidia, avrà bisogno di altri soggetti sulla scena. Nell’introduzione all’edizione italiana di “Invidia e gratitudine”, Anteo Saraval scrive: “La Klein non solo ci dice – e questo in una certa misura lo sapevamo – che la distruttività è un nostro potente impulso, ma che essa ci minaccia fin dalla nascita allorché si presenta nella sua prima veste: l’invidia”. Per gli antichi era una dea minore, faceva parte di quel pulviscolo di presenze divine che accompagna il pantheon delle religioni politeistiche: la ritroviamo ne “Le metamorfosi” di Ovidio (8 dopo Cristo) dove c’è un continuo inseguirsi e fuggire tra dei e uomini, e gli dei, stanchi della propria stucchevole perfezione, forse desiderando per sé la mortalità degli uomini, li spiano, li cercano, facendo ad essi continua violenza. Nel secondo libro, Ovidio ha dato una descrizione analitica, fotografica, dell’Invidia: Mercurio (mezzano di Giove, e figlio suo) volando vede dall’alto Erse bellissima – che nel suo desiderio paragona alla luna tra le stelle – se ne innamora e chiede, per più facilmente sedurla, la complicità della sorella di Erse, Aglàuro, un’impicciona che ha dato già gravi problemi a Minerva, violandone un segreto di cui la dea era gelosa. Minerva coglie quest’ultima occasione per punire Aglàuro e ne dà incarico alla terribile Invidia: “Infettala col tuo veleno”, infice tabe tua, le ordina. Ecco, nella traduzione di Mario Ramous, la descrizione che Ovidio fa delI’Invidia: “Il pallore le segna il viso, la magrezza tutto il corpo; / mai dritto lo sguardo, ha denti lividi e guasti, / il cuore verde di bile, la lingua tinta di veleno. / Senza un’ombra di sorriso, se non mosso dalla sventura altrui, / non gode del sonno, agitata com’è dall’assillo dei suoi crucci; / con astio apprende i successi degli uomini e quando li apprende / si strugge; strazia ed è straziata al tempo stesso”. Infine, Dante. Pone gli invidiosi nella seconda cornice del Purgatorio e la pena a cui li condanna è aspra: essi – che non hanno mai saputo vedere se non rovesciando lo sguardo perché torni verso se stessi (“invidère”, che secondo San Bonaventura significa “non vedere”) – dovranno sopportare la condanna di tenere le palpebre cucite con un filo di ferro: ben più violento di ciò che si faceva ai falconi, durante l’addestramento: “ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra / e cusce sì, come a sparvier selvaggio / si fa però che queto non dimora”. La cucitura delle palpebre ai falconi, e agli sparvieri in particolare, era detta “ciliatura”. Ma veniva fatta con molta attenzione, quasi amorevolmente, come la descrive l’imperatore Federico II, nel suo “De arte venandi cum avibus, un manuale, che si legge – e non si smette di leggere – come un romanzo: Et sit filum in acu “nell’ago sia preparato il filo”.