Secondo appuntamento stasera, con i Teatri in Blu ideati da Vincenzo Albano che presenta Carlo Gallo e il Teatro della Maruca in “‘N Cielo ‘n Terra”
Di OLGA CHIEFFI
Due numeri magici, il tre e il sette caratterizzeranno il secondo appuntamento del terzo cartellone di Teatri in Blu, una stupefacente idea di Vincenzo Albano, che sposa in toto l’identità marinara di Cetara. Sulla terrazza a getto sul mare della Torre Vicereale, stasera e domani doppio appuntamento con parole e suoni che vengono da lontano, portati dal mare, dal Teatro della Maruca di Crotone che presenta Carlo Gallo e il musicista Emanuele Sestito, in “‘N Cielo ‘n Terra”. Ci ritroveremo alle 20 per un aperitivo dal sapore mediterraneo, per poi calarci intorno alle 21,30, illuminati da un quarto di luna, in due antiche storie. La prima, è “‘U pruppu du re”, che prende spunto da un’antica filastrocca ascoltata da Carlo Gallo da un anziano a Le Castella. L’attore le intreccia con altre storie che hanno a che fare con il realismo magico. E’ questo, uno stornello ipnotico quasi incomprensibile, che il protagonista ripete trepidante mentre attende l’esito del suo destino: o morte o re, come Calaf. Intanto dal fondo di una riva lunghissima, nel riflesso accecante del sole, si compone l’immagine di un vecchio stregone di mare che avanza portando con sé un mostro con tre cuori. I personaggi si muovono su un regno diviso in due: è cielo dove sta il castello arroccato in alto con la principessa e i signori ricchi e benestanti del palazzo ed è terra, giù in basso, alla marina, dove gli uomini vivono in una favela tra baracche e case bombardate, in mezzo, quel mare dove tutto ha inizio. Il numero tre, numero simbolico dei tre regni, cederà, quindi, il passo al 7, numero magico, simbolo del cielo, con “U Patre Rannu”. Il grande Padre, che al cospetto di Gesù e la Madonna sceglie un pezzo di creta e crea l’uomo e la Calabria, terra bellissima tra due mari, rendendola unica. Una terra creata da Dio con amore, che non può che ispirare il gran dono delle sette note, con cui i Calabresi avrebbero dovuto cantare le lodi a‘ U Patre Rannu, ai quali il diavolo, in un momento di sonno del Padreterno, ruba il “Si”, una nota particolare, che, ad esempio, Roberto De Simone, intende come la più triste e sulla quale ha costruito il suo Stabat, impedendo così agli uomini di intonare alcun canto, e provocando il caos. Nello Stabat di De Simone, quel Si naturale evocato dalle ance, dal suono dei sassofoni, aveva da schizzare la morte, il magico, il religioso, il simbolico, l’iniziatico, il caos. Ma quel Si aveva anche il compito di far percepire la terra, il terreno, come un principio di assorbimento e, insieme di nascita: abbassando, si seppellisce e si semina, e, nel medesimo tempo, si dà la morte per poi ridare nuova luce, nuova vita. Così nel cunto della terra il povero vuole salire in cielo e aspira a diventare re, varcando i confini dei ricchi mentre nel cunto del cielo, l’uomo in terra è accecato dal potere, non ha bisogno del suo Dio, anzi si sente egli stesso un Patre Rannu e quest’ultimo in cielo osserva immobile, quasi come un comune mortale, incapace di agire dinanzi a tanta malvagità. La lingua diventa testimonianza di un mondo, che è “centro a sé stesso”, in cui le immagini reali si fondono a quelle ermetiche e simboliche.